Ho i Måneskin davanti quando il telefono inizia a squillare impazzito. Si illumina ancora, è il mio editore. Butto un occhio: Orietta Berti ha detto che vorrebbe duettare con i Måneskin, ma si è sbagliata e li ha chiamati Naziskin. Non ce la faccio a trattenere la risata, anche se cerco di coprirmi in tutti i modi. Ma nell’esplosione di entusiasmo dei ragazzi che ho di fronte, nessuno ci fa caso. Davanti a me quattro ragazzi pieni di quell’energia rivoluzionaria che nulla ha a che fare con i Naziskin. Mi sembra quasi un ossimoro, una roba talmente lontana da queste stanze che faccio fatica anche a capacitarmene. Ma anche se non sono Naziskin, qui a Sanremo i Måneskin sono stati gli unni. Devastanti come Hiroshima. Pericolosi come la Corea del nord. E quest’anno la Corea invade ben due palazzetti in Italia, Palalottomatica e Mediolanum Forum. Victoria, Thomas e Ethan sono impeccabili, seduti l’uno sopra l’altro sul divano dello stanzone in cui si trovano. Damiano invece ha una canottiera bianca a costine, un po’ Vin Diesel in Fast and Furious, un po’ Diego Abadantuono. Sono disinvolti, sicuri di loro, con quella predisposizione particolare all’ascolto, ma soprattutto alla parola, al dialogo fra pari. Sono sorridenti, hanno appena ricevuto l’endorsement social da parte di Vasco Rossi. La cosa, come è ovvio che sia, li ha esaltati, e li ha fatti sentire «consacrati» al rock.
In effetti le sonorità di Zitti e buoni, il pezzo in gara alla finale di stasera, lo sono. Un rock acerbo, certo, ma sostanzialmente un buon rock. È una canzone nata prima del successo a X Factor e che negli anni è stata di volta in volta adattata a loro e alla loro evoluzione di musicisti. «In questo brano – spiega Damiano – noi non ci rivolgiamo ad alcuno. Non abbiamo nemici, vogliamo solo che sia chiara la dichiarazione di intenti. Siamo una band che ha studiato per avere questo sound e noi vogliamo dire che questa è la nostra strada». È difficile credergli però, perché è chiaro l’intento principale: prendere le distanze da quella generazione di impellicciati che in altre circostanze avrebbero riempito il teatro Ariston (ma non di certo i loro palazzetti). Un pubblico diverso dalla loro solita folla di ragazzi urlanti accalcati alle transenne. E da quel pubblico loro hanno preso distanza, con un brano che è un vero calcio in bocca al melodico italiano. Un pezzo atipico rispetto all’etichetta del Festival. «Il nostro pezzo è scomodo – ammettono – non in linea con il contesto», ma resta il fatto che sia riuscito in appena due giorni a sfiorare il primo milione di ascolti in streaming. «La sincerità paga e noi siamo sinceri». Sinceri senza dubbio alcuno, ma è innegabile che la generazione di impellicciati da cui prendono le distanze (“Siamo fuori di testa/Ma diversi da loro”) è la stessa che li ha messi lì sopra. L’altra sera, durante la serata dei duetti, sono andati in scena accompagnati da Manuel Agnelli, il giudice che li scelse e portò fino alla finale del talent di Sky. «Con lui c’è un’amicizia – dicono – ci ha consigliato di insistere senza snaturarci». Teatro d’ira, il nuovo album in uscita, avrà esattamente le sonorità più naturali della band, e tutta la carica rivoluzionaria che ci hanno anticipato sul palco del teatro ligure.
Dò un’altra occhiata al loro look. «Il lavoro che ha fatto Etro col vostro outfit è incredibile – gli dico – anche in questo si percepisce una fluidità con pochi precedenti sul palco dell’Ariston. Qual è stato il vostro punto di partenza?». Risponde subito Damiano: «Noi abbiamo dato quelle che erano le nostre references. Foto di gruppi, oppure richiami ad artisti più o meno attuali». Lo incalza Victoria: «Anche proprio a volte a livello di concetto, l’idea del corsetto ad esempio: è stata un’idea legata proprio alla volontà di abbattere gli stereotipi di genere. Demolire l’idea di un determinato abbigliamento che deve essere soltanto femminile o maschile. Quindi abbiamo fatto un mix tra quelli che sono gli ideali che portiamo avanti, e ciò che ci piace a livello artistico». «Abbiamo fatto un lavoro della madonna», scherza Damiano. A questo punto ho un solo tarlo nella testa, ma quali saranno le references di cui parlano? Glielo chiedo, insistentemente. Mi risponde Victoria: «Penso ai soliti a cui alla fine si ispirano un po’ tutti: Led Zeppelin, i Rolling Stones, Bowie». Insomma, non proprio i Pooh, ma questo era chiaro. I ragazzi puntano in alto. E se proprio non riusciranno a duettare con Mick Jagger, Orietta Berti si è resa disponibile per un duetto. Fossi in loro non mi farei sfuggire l’occasione.