La letteratura e la cinematografia sono piene di esempi di mostri universalmente noti e ben delineati nell’immaginario collettivo. Un Darth Vader, un Frankenstein, un Dracula ad esempio. Personaggi (e non persone) profondamente negativi ma immaginari, così conosciuti da essere apparsi ciclicamente in adattamenti televisivi, rappresentazioni teatrali, opere letterarie e caricature. Soffermiamoci su quest’ultimo punto, fondamentale: qual è il prerequisito per la caricaturizzazione di un personaggio? Non è che faccia ridere, quello viene dopo; dobbiamo tornare a monte. Il primo, essenziale e imprescindibile punto è che l’osservatore abbia ben chiaro chi è rappresentato, altrimenti la differenza con una semplice commedia è nulla. Non rido solo per la comicità studiata delle battute o per l’aspetto esasperato della caricatura; rido perché ho ben chiaro quale sia l’ispirazione, il personaggio di partenza, e di come i suoi tratti più noti vengano esasperati.
Certo è che creare la parodia di un mostro immaginario è molto diverso (forse anche più facile) che crearla di un mostro che è tutto meno che fittizio. Capone di Josh Trank prova a fare in parte proprio questo: prendere un personaggio (stavolta anche persona) noto per la propria crudeltà e spogliarlo di quell’aura di timore e paura che normalmente lo avvolgono. Il tramonto di un uomo, non più Al Capone ma Fonzo (Tom Hardy), il marito, il padre, l’amico. Il film, che prende il nome del suo protagonista, si concentra sull’ultimo anno di vita del più famoso gangster della storia, lì in quella villa in Florida dove morirà, circondato da statue greco-romane e coccodrilli. Fonzo non ha le forze o la salute fisica per essere la figura temibile del nostro immaginario; è solo un uomo che indossa il pannolone e si lascia corrodere interiormente dalla malattia e da una demenza senile che lo costringerà a ripercorrere a suon di incubi e allucinazioni la sua intera vita.
Questo ritratto però non vuole e non riesce a far ridere lo spettatore, tanto quanto non riesce a convincere nel suo tentativo di raffigurarne l’aspetto umano e familiare. Troppo caricaturizzato per far riflettere, troppo poco per far ridere (non con lui, ma di lui). Il Fonzo di Tom Hardy è semplicemente esagerato, ma ancor di più lo è Josh Trank, regista, sceneggiatore e addetto al montaggio della pellicola. Uno e trino in quest’opera che forse avrebbe potuto essere più godibile se ci fossero state più teste e più visioni a prenderne parte. I problemi purtroppo esulano dalla semplice definizione poco chiara ma troppo ostentata del personaggio. L’eccessiva ambizione del suo creatore rende la pellicola davvero ben poco definita: si passa da allucinazioni a realtà in maniera poco netta, ma senza la maestria che avrebbe potuto avere un Christopher Nolan nel farlo, e la confusione risultante non ha nulla del colpo di genio, quanto piuttosto di un progetto non ben studiato.
I temi ricorrenti – la ricerca di del denaro nascosto e la figura di un figlio che in realtà non sembra esistere – fanno da filo conduttore senza portare però da nessuna parte. O ancora si potrebbe parlare dei personaggi secondari, troppi, inutili, introdotti e scomparsi dal e nel nulla. Gli aspetti negativi abbondano ed è un vero peccato viste le premesse; l’impressione finale è che il regista abbia messo nel film tutta la sua fame di rivalsa dopo il grande flop dei suoi I fantastici quattro; purtroppo quando un’opera è pensata per dimostrare qualcosa e punta troppo in alto, il rischio di strafare è sempre dietro l’angolo. La torre di Babele è crollata, Icaro precipita, Josh Trank fa un altro flop. Da ambizione a tracotanza il passo è davvero breve e come sempre c’è un detto popolare in grado di riassumere in tutto e per tutto questo concetto (e questo film): il troppo stroppia.