È uno dei tre artisti – insieme a Paul McCartney e Michael Jackson – ad aver venduto oltre 100 milioni di dischi in tutto il mondo, ha partecipato nel 1985 allo stesso Live Aid (Londra e Philadelphia), in due continenti diversi, nella stessa giornata, suonando per l’occasione con i Led Zeppelin al posto del defunto John Bonham, è stato batterista e poi frontman dei progressive Genesis, ha sfornato singoli dal successo sempiterno come In The Air Tonight, Another Day in Paradise e One More Night ma il suo sogno è sempre stato quello di suonare per gli Who del suo idolo Keith Moon. Tutto questo è Phil Collins da Chiswick, il più famoso mancino della batteria: uno degli artisti più eclettici e cangianti della storia eppure anche uno dei rocker più discussi, definito dal Daily Telegraph “l’uomo più odiato del rock” per la sua gigantesca (sovra)esposizione mediatica, raccontato in cinque album.
A Trick of the Tail (1976)
Alla qualifica di batterista egli aggiunge anche quella di voce dei Genesis dopo il traumatico abbandono del frontman Peter Gabriel nel 1975. Raccolto lo scomodo testimone Phil Collins saprà trascinare la band all’apice del suo successo commerciale – smentendo del tutto le previsioni di buona parte della stampa musicale che li aveva dati per finiti all’indomani della partenza di Gabriel – iniettando nell’animo progressive della band quella dose di pop che permetterà ai Genesis di affrontare i glitterati anni Ottanta. A Trick of The Tail è uno spartiacque in cui passato e futuro convivono, i testi dei brani riprendono lo stile narrativo e fiabesco del passato, i lunghi momenti strumentali, da sempre cari alla band (Mad Man Moon e Ripples), convivono con composizioni più leggere e rilassate (Robbery, Assault and Battery e A Trick of the Tail). Momento più alto dell’album è custodito in Ripples, brano in cui la prova canora di Collins, magica e soave, non ha nulla da invidiare a quella dell’uscente Gabriel. Da Robbery, Assault and Battery e A Trick of the Tail furono tratti anche i primi due videoclip mai fatti dai Genesis, il futuro – che non rinnega il passato – è qui.
Moroccan Roll (1977)
Batteria, piano e voce per Phil Collins nel secondo album dell’esperimento jazz-rock inglese che prende il nome di Brand X: gruppo che vide luce nel 1976 e che lavorava nei momenti di pausa di Collins. Il jazz-rock è il fratello più povero della grande famiglia del rock, il suo periodo dorato è durato davvero poco, meno anche del contemporaneo progressive. Moroccan roll, gioco di parole che sta dietro alla frase “more rock and roll”, restituisce l’idea che i Brand X avevano del concetto di rock and roll appunto: un’idea originale, senza confini, nata in maniera spontanea. Nell’album, al jazz-fusion e al funk predominanti, si aggiungono piccole influenze progressive, un abile mix che trasporta immediatamente l’ascoltatore in lontani mondi orientali. Phil Collins è ancora sugli scudi: c’è la sua firma nelle due melodie Why Should I Lend You Mine (When You’ve Broken Yours Off Already) e …Maybe I’ll Lend You Mine After, recita alcuni versi in sanscrito nella traccia d’apertura dell’album Sun in the Night ed infine si scatena alla batteria nel gioiello Hate Zone, entrambe del chitarrista John Goodsall.
Face Value (1981)
Il diario musicale delle sue pene d’amore trasforma il fresco cantante dei Genesis in una delle popstar più conosciute al mondo. Collins è ansioso di sperimentare sonorità differenti rispetto a quelle adottate con i Genesis: non solo i fiati degli Earth, Wind & Fire, le note R&B o i leggeri spunti funk, il menestrello di Chiswick è più di tutto interessato/ossessionato dal riprodurre quel caratteristico effetto di riverbero della batteria che compare nel brano d’apertura (Intruder) dell’album dell’ex compagno Genesis, Peter Gabriel III (1980). Nonostante la sua reputazione di batterista, Collins vuole ricorrere in Face Value all’utilizzo di batterie campionate e drum machine, mentre l’effetto riverbero finirà per caratterizzare il suo primo singolo da solista e prima traccia dell’album, la celeberrima In The Air Tonight. Testo rabbioso e gated reverb si sposeranno – a differenza di Collins e la sua prima moglie (Andrea Bertorelli) – alla perfezione, portando tale effetto nella cultura musicale di massa, tanto che un’altra leggenda della musica come David Bowie ne rimarrà così colpito da utilizzarlo da lì a breve nel suo album Let’s Dance (1983).
No Jacket Required (1985)
Siamo nel cuore degli anni Ottanta, più precisamente fuori da un ristorante, il Pump Room di Chicago, locale nel quale Phil Collins, in compagnia del collega Robert Plant, non entrerà mai poiché il suo abbigliamento non sarà ritenuto abbastanza elegante. È questa l’inconsueta scintilla che darà vita ad un album che, nelle intenzioni del cantante, doveva essere senza pretese – “in cui non è richiesta la giacca” recita il titolo – e che invece diventerà il maggior successo commerciale di Collins, sancendone la definitiva affermazione anche al di fuori dei Genesis. Difficile trovare una canzone dell’album che non sia una hit, dalle scoppiettanti Sussudio e Don’t Loose My Number, fino alle romantiche atmosfere alla Jackson Five di One More Night e Long Long Way to Go, passando per Take Me Home, una canzone su un paziente di un istituto mentale, ispirata al romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo, che si caratterizza per i contributi ai cori di Sting e Peter Gabriel. Uno stile molto lontano, per i puristi, dal prog dei Genesis delle origini ma un pop-rock di qualità che sgomita ed emerge nello spensierato contesto del decennio di Spandau Ballet e Duran Duran.
Tarzan (1999)
Nel 1999 Phil Collins strinse una collaborazione destinata a fruttargli un enorme successo: non con una delle solite etichette discografiche, bensì con la Walt Disney Records, decisione che permise a Collins di svolgere una parte anche nel cosiddetto “rinascimento Disney”, quel decennio che va dal 1989 al 1999, in cui la Disney sperimenta nuove forme di narrazione, di cui il film d’animazione Tarzan rappresenta indubbiamente uno dei suoi frutti più riusciti. La sua colonna sonora fu la prima registrata in lingue diverse per i vari mercati e l’istrionico Phil Collins – su musica di Mark Mancina – non si limitò a cantare in inglese ma si cimentò con successo anche in italiano, francese, tedesco e spagnolo. Le canzoni in Tarzan non sono direttamente cantate dai personaggi, ma servono a narrare le sensazioni del momento. Non far cantare direttamente i personaggi fu proprio un’idea di Collins e, per questo motivo, egli insistette per cantare in tutte le lingue: eventuali cambiamenti di voce col doppiaggio avrebbero pregiudicato la comprensione di tutta la pellicola. Brani come Strangers Like Me, Two Worlds ma soprattutto You’ll Be in My Heart ebbero uno straordinario successo presso pubblico e critica, tanto che quest’ultima venne premiata con un Golden Globe e con un Oscar alla Miglior Canzone Originale. In quale lingua Collins ha preferito cantare? Proprio la nostra. «L’italiano è la lingua più facile – disse lui – è fatta per cantare».