Una parte del mio lavoro sta nel soddisfare le curiosità zuccherine delle tante persone che con aria interessata chiedono – in cosa consiste il tuo lavoro? Per spiegarlo faccio sempre lo stesso esempio: immaginate di essere invitati ad una cena. Stiri la camicia, annodi la cravatta e metti il profumo più importante. Prendi la macchina, corri come se ti stessero aspettando all’altare, passi anche con il rosso tanta è la fretta. Smetti di respirare fino a che non apri la porta del ristorante, stai sudando ma neanche ci fai caso. Trovi il tuo tavolo, lo riconosci perché ci sono tanti colleghi. Facce severe ma familiari. Loro sono seduti. Ridono, scherzano, mangiano. L’occhio scorre e non trova nessuna sedia libera. L’ospite d’onore invece è lì, seduto a capotavola. Lui parla solo con chi gli sta a fianco, con chi è invitato a consumare il cibo sul tavolo. Provi ad avanzare per prendere qualcosa, ma qualcuno ti dà uno schiaffetto sulla mano. No, tu non sei stato invitato per mangiare, tu sei stato invitato per vedere gli altri mangiare. Per osservarli mentre difendono strenuamente il loro piatto, quasi ne valesse della loro stessa vita.
Guardi i loro volti, le espressioni tronfie di chi sente di meritare quel posto a tavola. Hanno il doppio dei tuoi anni, il doppio della tua esperienza. Devi essere grato di stare lì ad osservarli. Devi essere grato perché da loro imparerai come ci si siede a tavola. Dopo tante conferenze stampa, il quadro è sempre più o meno questo. Un conflitto generazionale costante, un’autentica rissa per cercare di arraffare l’ultimo pezzo di aria fritta messo in sconto col black friday. Lo racconto alle facce attente che non fanno che domandarmi quanto sia eccitante stare lì a guardarli mangiare. E se c’è una cosa triste è proprio quella che nessuno ne sia mai sorpreso: è sempre così. È sempre stato così. Lo è dappertutto: in fabbrica, a scuola, in officina, dietro le vetrine splendenti di corso Buenos Aires e sotto le pile di panni nella lavanderia in centro a Crotone. Ci siamo arresi all’evidenza che non ci sia realmente uno spazio per noi millennials, figli di questa generazione di ingurgitatori. Abbiamo deposto le armi, sventolato bandiera bianca: la guerra generazionale l’abbiamo persa da un po’.
Vi starete chiedendo che cosa c’entra Zucchero Fornaciari e starete leggendo perplessi cercando di trovare un nesso tra il suo nuovo album D.O.C. Deluxe Edition e gli sforzi di tanti ragazzi che si ribellano alle solite resistenze. Ebbene, tutto quello che c’era da scrivere sull’album è già stato scritto. Ogni singola frase acchiappalike è già stata estrapolata. Oggi quindi voglio soddisfare la vostra curiosità zuccherina (perdonatemi il gioco di parole) e parlarvi di tutto quello che è attorno a quest’album, e quanto tutto ciò abbia a che fare col lavoro della scrittura. Quest’ultimo album di Zucchero è l’ennesimo prodotto fatto e confezionato per i boomer. Un ottimo disco, per carità, ma creato ad uso esclusivo della generazione che oggi è seduta con la testa sul piatto a mangiare fino allo sfinimento. In conferenza, davanti a me, ho un uomo che è arrivato ai suoi 70 anni, l’artista che lavora incessantemente dagli anni Settanta. Persegue senza sosta nella volontà ferrea di presentare un’alternativa valida alla melodica italiana, ed in effetti ci riesce. Zucchero plasma il ritmo, lo rende seducente e nazional popolare, è un fuoriclasse in questo.
Ma anche lui, come del resto gli altri suoi colleghi, si perde nel nulla delle chiacchiere senili circa l’assurdità dei tempi moderni. «Non c’è margine per il rock di innovazione – dice – quello che ha preso il posto del rock è stato il rap dei primi anni e qualche cosa ancora presente oggi». Più che un commento, un verdetto tagliagole. Si salva poco e niente, beati i bei vecchi tempi. Io assisto irretito. Zucchero parla di presente, ma soprattutto di futuro, con uomini e donne che hanno su per giù la sua età. «Parlavo ieri l’altro con il manager di Paul McCartney che mi ha detto di non illudermi e che lo streaming crescerà ancora e sarà inarrestabile. Io spero che lo streaming scoppi da un momento all’altro. Mi dovrò applicare anch’io, ma vista l’età forse posso farne a meno». Ed è proprio in quest’ultima frase che è racchiuso tutto il senso di questo articolo. Ve la riassumo in poche parole: io posso fare a meno del futuro.
Tutti ridono e annuiscono, perché è eroico che un musicista resista con forza a quelle correnti che vorrebbero la sua musica schiodata dal suo supporto fisico. Ma se smetteste di guardare solo il capotavola e allargaste leggermente l’inquadratura, vedreste le facce stanche della mia generazione, costretta al silenzio dalle risate di chi non si preoccupa troppo del futuro, perché non ne ha bisogno. Sarebbe bello parlare di streaming, di strategie marketing e di social network non solo con chi condivide immagini di gattini e tazzine di caffè, ma anche con chi invece ci è nato in quella roba che tanto è disprezzata. Sarebbe bello poter tradurre questo strenuo tentativo di ammutolire il futuro, in un incontro con chi quel tempo è destinato a viverlo, ma solo a patto che si liberi un posto. Solo a patto di non rubare il piatto a chi lo difende così avaramente, e oggi può parlare a Zucchero dandogli del tu.
Non c’è niente di questa storia che si possa dire veramente “nuovo”. È la solita lotta fra ciò che era e ciò che è, tra Simba e Mufasa, fra Cattelan e Pippo Baudo. Vi anticipo: qui nessuno mette in dubbio la qualità dell’esperienza raccontata da chi ha più anni, ma è lecito farsi due domande sull’assenza strategica della voce di chi a tavola non si è seduto, e forse, non ci si sederà mai. L’album di Zucchero è un bell’album, niente da eccepire, anche perché uno dei temi ricorrenti è proprio la Rivoluzione. La scrivo con la R maiuscola, perché sia sottintesa l’importanza dello sconvolgimento dell’ordine. Ma siamo sicuri di ricordare ancora cosa significhi davvero Rivoluzione? C’è su internet una bella definizione: “Che sia un movimento irrevocabile o un ciclico ripristino di condizioni precedenti, le rivoluzioni, volute coraggiosamente o ineluttabilmente subite – così come quelle dei moti dei corpi celesti – segnano un nuovo punto di partenza”. La rivoluzione è già il futuro e si fa abbracciando il tempo, non opponendosi ad esso. E tra uno, dieci, cent’anni, se ci sarà da combattere questa rivoluzione, a chi darà finalmente voce?