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Per i Sigur Rós le pause non sono mai state un problema

Dopo il Nordur Og Nidur Tour, i Sigur Rós hanno staccato la spina e si sono presi una pausa. Tre anni per ritrovare loro stessi, ma anche per lavorare a “Odin’s Raven Magic”.

Tutto si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Con questa frase Antoine-Laurent de Lavoisier ci spiegava come la massa si conservi nel tempo e nello spazio. Eppure ci sono delle cose che in un certo senso non si trasformano mai. Una di queste è il miele: la pappa reale sepolta quattromila anni fa insieme ai faraoni Egizi, infatti, è potenzialmente ancora commestibile. Un’altra cosa che non si trasforma è un certo tipo di musica: quella eterna. Rientra in questa elitaria categoria Hoppípolla, brano dei Sigur Rós. Perciò quando ho avuto l’opportunità di parlare con Georg Hólm, non sono riuscito a non rompere il ghiaccio citando il brano più iconico di Inni. «Mi ricordo benissimo quando è nata – mi dice in collegamento FaceTime da Reykjavík – Avevamo questa sorta di melodia in loop di dieci secondi che ascoltavamo ovunque, a casa, in studio. Già in quei momenti sapevamo che sarebbe diventato un qualcosa di molto importante. Ricordo che ci faceva sorridere il fatto che quando lo facevamo ascoltare ad altre persone non capivano cosa avessimo in mente. A loro risultavano solamente dieci secondi di roba strana».

Tre anni lontani dai radar non sono pochi.
Ora che mi ci fai pensare, è passato veramente parecchio tempo dall’ultimo singolo che abbiamo rilasciato. Ma durante la nostra carriera è sempre andata così, a lunghi tour sono seguite lunghe pause. Ci prendiamo sempre uno o due anni per riposarci, anche se questa volta lo stop sta durando più del previsto. Tra qualche giorno saranno tre anni dall’ultimo dei quattro concerti che abbiamo tenuto all’Harpa di Reykjavík (ultima tappa nel loro ultimo tour ndr.).

Il lato positivo è che spesso le lunghe pause portano a nuovi lavori, è così anche per i Sigur Rós?
Abbiamo iniziato a registrare nuovo materiale due anni fa, ma è ancora incompleto. Per il momento abbiamo nell’hard disk cinque brani inediti. Quindi sì, c’è della nuova musica, ma non c’è ancora un prodotto definito e completo da mettere sul mercato.

Sta per uscire Odin’s Raven Magic, un album orchestrale che avete registrato nel 2004. Mi diceva il vostro ufficio stampa che l’intenzione di pubblicarlo c’è sempre stata, ma non era mai il momento giusto. Cosa vi ha convinto a rilasciarlo?
Quando abbiamo suonato a Parigi nel 2004 abbiamo voluto registrare e filmare il concerto. All’inizio Odin’s Raven Magic era stato concepito per essere un film. Il materiale che avevamo però non ci convinceva, non ci sembrava abbastanza interessante, quindi lo abbiamo accantonato. Ci abbiamo rimesso le mani sopra qualche anno dopo, nel 2008, ma ancora una volta non eravamo convinti, così è rimasto un progetto tra gli altri impegni. L’idea di pubblicarlo come un disco non ci era mai venuta, eppure abbiamo scoperto che questo era il modo più semplice e naturale per metterlo a disposizione dei fan.

Ascoltandolo, ho avuto l’impressione che la vostra musica non sia fatta per essere semplicemente ascoltata, ma sia una esperienza sensoriale.
Odin’s Raven Magic è stato un percorso inusuale perché avevamo già una storyline da seguire, quella di un poema islandese che si chiama Hrafnagaldr Óðins. Devo ammettere che all’inizio non è stato facile, prima di tutto perché è scritto in un islandese arcaico, ma soprattutto perché è un testo astratto. Hilmar (Örn Hilmarsson ndr.) è stato in grado di spiegarci la storia che abbiamo spezzettata in piccole sezioni affinché ogni parte avesse un suo carattere. Mentre creavamo la musica eravamo in grado di posizionarla all’interno della storyline come con un puzzle. Ma quando creiamo musica normalmente improvvisiamo qualcosa insieme e se sentiamo un feeling particolare, se è capace di suscitarci delle immagini mentali, allora sappiamo di essere sulla strada giusta.

Se doveste definirvi, oggi, che etichetta usereste?
Rock & roll, è così che ci piace descrivere quello che facciamo anche se ci sentiamo liberi di fare quello che più ci piace, senza fossilizzarci su un determinato genere o suono. Anche quando abbiamo deciso di fare quest’album sapevamo di avere bisogno di un coro e dell’orchestra, ma allo stesso tempo ci siamo lasciati la possibilità di essere liberi e fare quello che ci piaceva come ci piaceva.

Avete lavorato alla colonna sonora di Game of Thrones e Black Mirror. Come nasce una collaborazione con Hollywood?
Da Hollywood mi è giunta voce che le nostre canzoni sono utilizzate spesso come musica temporanea per i film. Se non riescono a sostituirla ci contattano per avere i diritti, altrimenti chiamano qualcun altro che gli crea un qualcosa sullo stesso mood. Solitamente però, dopo che i registi usano temporaneamente le nostre musiche, non riescono a sostituirle con altro. È in quel momento che arriva la chiamata da Hollywood.

E invece il vostro rapporto con le radio? È possibile coniugare un sound ricercato come il vostro ad una divulgazione radiofonica globale?
Non è il nostro obiettivo principale ma alla fine a tutti piace quando la propria musica arriva al grande pubblico. Le logiche radiofoniche però non ci hanno mai portato a cambiare le nostre idee in studio. Facciamo la musica nel modo che ci piace e non vogliamo rientrare in nessuno standard. Amiamo fare concerti, stare davanti a dieci, ventimila persone.

Se pensi poi che siete una band islandese che canta nella propria lingua, tutto questo è ancora più sorprendente. A proposito di questo, grazie a Violently Happy in Iceland (una mostra allestita a Bologna nel 2013) ho sorprendentemente scoperto che l’Islanda è la patria di moltissimi artisti. Oltre a voi e Björk, ci sono i Mùm, gli Of Monsters and Men. Come ve lo spiegate che in una terra poco densamente abitata come l’Islanda siano nate un numero elevatissimo di band che sono state in grado di cambiare il corso della musica a livello mondiale?
Forse per noia (ride ndr.). La realtà è che non c’è una risposta corretta, d’altronde è un tema molto discusso anche qui in Islanda. Nessuno è capace di spiegare perché così tante band islandesi siano state in grado di arrivare a un pubblico così ampio. Siamo solo in 360.000 e se pensiamo che solitamente sono i giovani a creare band, la questione è ancora più insolita. Anche quando ero piccolo, comunque, chiunque era in una band. I ragazzi islandesi o giocano a calcio o suonano o fanno entrambe le cose.

Abbiamo iniziato la nostra chiacchierata parlando di Hoppípolla e mi piacerebbe chiudere il cerchio allo stesso modo. Aver inserito nel proprio repertorio un pezzo così iconico vi ha creato qualche tipo di pressione nello scrivere nuova musica?
Solitamente siamo noi che cerchiamo di spingerci oltre. Ma il nostro passato non ci mette paura anzi, con gli anni abbiamo cambiato radicalmente il nostro modo di lavorare. Oggi non c’è nessun tipo di pressione, nessuna deadline. Spesso se fuori è una bella giornata, e qui in Islanda credimi che è molto raro, preferiamo mettere in stand-by il lavoro in studio. Abbiamo capito che fa bene prendersi delle pause di tanto in tanto. È come quando si fa un quadro: è importante fare un passo indietro per vedere l’opera da un altro punto di vista, guardare altro e tornarci sopra. È una cosa che facciamo spesso questa di fare un passo indietro, staccare la spina per poi rilavorarci. Ti ho svelato il segreto dei Sigur Rós, è così che capiamo cosa non funziona di un pezzo.