Il fiume più lungo del mondo è il Nilo, che nasce sotto l’equatore, attraversa l’Africa orientale e sfocia nel Mediterraneo. Anche se scorre verso nord i suoi venti principali soffiano verso sud. È per questo che da migliaia di anni è considerato facilmente navigabile. Si può seguire la corrente o issare le vele per imbrigliare la forza del vento. Immaginatevi adesso Miley Cyrus in mezzo a questo fiume, che il vento sia la sua attitudine rock alla quale si è lasciata andare più volte durante la sua carriera e che la corrente sia il pop radiofonico che l’ha resa celebre in tutto il mondo.
Il suo nuovo disco, Plastic Heart, è uno spettacolo di versatilità. Risponde alla perfezione a tutti i diversi stimoli della cantante, adattandosi perfettamente a tutti gli stili e i generi intrapresi. Si muove ovunque e con coerenza, alzando l’asticella qualitativa alle stelle. Ma soprattutto, quest’album dà corpo alla sete di risorse eclettiche e multiformi di Miley, tanto flessibili da favorire i suoi tentativi di andare dove vuole, quando vuole, senza mai restare ferma e uguale a sé stessa. Un errore comune, però, è sicuramente quello di valutarla come una popstar che si è data al rock, seguendo la scia di un mood anni Ottanta, particolarmente in auge in questo momento. Niente di più sbagliato.
Se è vero che in questo momento c’è una forte tendenza delle popstar a optare per il ritorno degli strumenti organici, è vero anche che le sonorità elettro-synth che hanno dominato la seconda metà degli anni Dieci non sono mai scomparse, nemmeno in quest’album. In Plastic Heart, Miley le combina, le migliora, le plasma a sua immagine e somiglianza, entrando e uscendo da ogni genere con la disinvoltura di Valeria Marini in un negozio di ciglia finte. È per questo che possiamo dire che Miley Cyrus è una rockstar 2.0. Non perché sfascia chitarre o si esibisce tra fiamme e rullanti assordanti, ma perché canta la sua dannazione in dodici modi diversi, come il numero di brani presenti in questo lavoro.
Sfrontata e scalmanata nella title track, Miley vira verso sonorità disco-punk con Prisoner, in duetto con Dua Lipa. La new wave è sicuramente ben rappresentata da Night Crawling, che raccoglie il contributo di Billy Idol, le vibrazioni country dalla struggente High, il pop di Britney Spears espresso al massimo delle sue potenzialità in Gimme What I Want e il pop-country più mite di Taylor Swift in Hate Me. Ma c’è anche tanto spazio per il rock da power chords su un beat pesante. Nonostante la varietà di proposte, Plastic Heart è un album coerente, che se ascoltato nel giusto ordine rivela un vero e proprio studio.
Il contenuto dei pezzi non è abbandonato per prediligere la forma, ma chiaramente è solo in un secondo momento che ci si accorge della profondità di alcuni testi. Basti pensare alla ballad dell’album, Angels Like You. Un brano che a furor di popolo potrebbe essere prossimo singolo, perché sicuramente è uno dei brani più apprezzati del progetto. Un ulteriore appunto è da fare sulla scelta degli anni Ottanta. Un decennio vasto, pieno di diverse correnti e interpretazioni. Se la stragrande maggioranza degli artisti ne ha ripreso le connotazioni elettroniche della fine di quel decennio, Miley ne ha preso gli aspetti salienti della prima parte. Anni freschi del punk di fine anni Settanta e pieni di quell’ambizione da supereroi moderni, pronti a prendere in mano le redini della scena musicale.
Scena musicale che è tutta presente, da Debbie Harry e i Blondie, a Stevie Nicks, Pat Benatar, Chrissie Hynde e per finire Joan Jett. Niente è lasciato al caso, ed è tutto studiato affinché l’ex Hannah Montana abbia la svolta della sua vita, quella definitiva, oltre il periodo in cui ballava nuda su una palla da demolizione. È la sua consacrazione, oltre i pregiudizi di chi continua a incasellarla in uno spazio che ormai le va stretto. Miley Cyrus ha tracciato la strada per tutti gli artisti millennials che verranno dopo di lei. Lei che è nata negli anni Novanta, ma che ha cantato gli anni Ottanta meglio di chiunque altro.