L’ultima volta che lessi una tracklist tutta scritta in small caps (ossia senza lettere maiuscole) si trattava di when we all fall asleep where do we go? di Billie Eilish, ossia l’album più rivoluzionario del decennio. Quel che fa invece Machine Gun Kelly non è nulla di nuovo, è anzi esattamente quel che ci si aspetta da un album anticipato da bloody valentine. Ora, la domanda che sorge spontanea è: questo è forse un problema? Risposta corretta: fuck u, nope. Tickets to My Downfall è infatti il più classico degli album pop punk, quello che i fan di Blink-182 e Sum41 chiedono dal 2003. Un pugno nello stomaco in cui la timbrica graffiata e il lessico da sboccacciato di Machine Gun Kelly vengono incalzati dalla combo cassa-rullante di Travis Barker (produttore dell’album e storico batterista dei Blink-182) per pochi fottuti minuti, visto che solo tre dei quindici brani superano i tre minuti.
A colorare – come si usa dire a Roma – le chitarre (sia acustiche che elettriche) che tengono alta la tradizione del genere punk, che per definizione disdegna il piano e le tastiere e si esprime attraverso gli arpeggi ed i power chords dello strumento principe. A questa formula, vincente dai tempi dei Ramones e dei Sex Pistols, il cantautore di Cleveland aggiunge sprazzi di trap, con le iconiche sonorità degli 808 e degli hi hat, in grado di riempire e svecchiare i fill di Barker. Sia chiaro: nulla di memorabile, ma nonostante ciò Tickets to My Downfall funziona, soprattutto quando si schiaccia play sui singoli, title track (sì, è proprio questo il titolo del pezzo) e lonely, una ballad in perfetto stile Stay Together For The Kids. Un lavoro nel complesso inattaccabile e ben congegnato, in grado di soddisfare tutti quelli che da anni rileggono con un punto interrogativo lo slogan che rappresenta da sempre il loro genere preferito: punk is not dead. In attesa che i capostipiti del punk 2.0 resuscitino, ci accontentiamo del punk 3.0.