Il 28 aprile mi sono laureato. L’Italia intera era rinchiusa in casa per via della pandemia e sullo sfondo giallo della mia stanzetta ho discusso la tesi di laurea sulla musica come strumento di liberazione della comunità afroamericana. La mia professoressa voleva che scrivessi qualcosa in merito all’impiego degli eunuchi nell’opera lirica del tardo ‘600, ma ho resistito. Sentivo di avere qualcosa da dire, un mese prima della morte di George Floyd. Un mese prima che il mondo intero aprisse gli occhi sulle ingiustizie che, da secoli, tormentano la comunità afroamericana, in special modo negli Stati Uniti d’America. Non ho particolari doti divinatorie e non saprei vincere un gratta e vinci nemmeno se me lo dessero già vincente. La mia particolare intuizione, sebbene ante litteram, è frutto di una serie di suggestioni che la musica pop ha saputo portare avanti in anni e anni di impegno civile. Se il mondo si è svegliato solo ora dal torpore in cui si è trovato per decine di anni, alcuni portano avanti un certo impegno da molto prima che si scendesse in piazza a spaccare vetrine sotto lo slogan “Black Lives Matter”.
Nel 2016 Beyoncé aveva alle spalle già un ventennio di carriera, l’immagine patinata della diva dalla voce portentosa, un corpo sexy e tante hit incastonate nella storia della musica leggera mondiale. Pochi avrebbero scommesso sulla profondità a cui il suo album Lemonade l’avrebbe consacrata. La cantante di Houston è diventata la voce di quella comunità afroamericana che si interrogava sul perché di tanta violenza, molto prima dei fatti di questi ultimi mesi. Avete dimenticato il video di Formation? Diretto da Melina Matsoukas, sembra oggi ancora più attuale di quattro anni fa e ritrae alla perfezione gli effetti della violenza della polizia sulla comunità nera. Nel video la cantante si rannicchia sul tettuccio di un’auto della polizia che lentamente affonda.
No, non parliamo di una semplice provocazione, ma di un dito puntato contro la stessa violenza di stato a cui la comunità nera è da sempre stata abituata. Un’accusa di una potenza straordinaria. Una delle scene centrali del video vede una fila di poliziotti in assetto antisommossa, tutti schierati davanti a un ragazzino nero che balla. Proprio questa scena cerca di porre l’accento sulla differenza tra la minaccia percepita e una vera minaccia. Ma chi è la minaccia? La comunità afroamericana? La polizia? Lo stato? Può la paura essere essa stessa il deterrente e la scusante di così tanta violenza? Beyoncé dice: «Questa non è una preghiera rivolta a tutti i poliziotti ma solo a coloro che non riescono a valorizzare la vita umana. La guerra alle persone di colore e a tutte le minoranze deve cessare. La paura non è una giustificazione, l’odio non vincerà».
Sì, lo so. Sembra scritta oggi. Sembra rispondere alle migliaia di facce indignate che provano a ignorare ancora l’insostenibilità della condizione degli afroamericani. No, signori, queste parole Beyoncé le ha espresse dopo l’escalation di violenze avvenute a Dallas, nel 2016. Durante questi anni, non ha mancato di fare sentire ancora tutto il suo supporto: dal palco del Superbowl a quello del Coachella, ogni esibizione e ogni tour sono stati pregni di riferimenti a quella cultura che tanti preferirebbero non considerare, nascondere, o in un certo senso anche cancellare. E così, fino ad oggi, per oltre un lustro di carriera e di leggendarie performance. Vi stupisce che la canzone più rappresentativa di questi giorni di tumulti, sia proprio una canzone uscita dall’album Lemonade, pubblicato da Beyoncé ben 4 anni fa? Niente di scritto apposta. Niente di programmato; ma una canzone che sembra alzare la voce, oggi più di 4 anni fa.
Freedom è la canzone perfetta. Il featuring con Kendrick Lamar (non uno a caso), ha le parole giuste per parlare a tutti, dalla donna nera in ciabatte sotto una pergola nel Tennessee, al presidente Trump, anche lui seduto, ma sulla comoda poltrona della stanza ovale. Negli ultimi giorni gli streams del brano sono aumentati del 70%, i cortei marciano intonando i versi della canzone e migliaia di fan l’hanno già scelta come inno e manifesto musicale. “Farò una rivolta, una rivolta oltre i vostri confini/Chiamami a prova di proiettile”, canta Beyoncé. Freedom è un vero e proprio viaggio, tra i fatti di George Floyd e la storia politica di una comunità che ancora subisce e non trova riscatto. Freedom è un viaggio attraverso la rabbia e la liberazione, un viaggio di sacrifici e speranze che termina con un avvertimento: non subiremo più. Né oggi, né domani, né mai. Oggi, le strade di tutto il mondo chiedono giustizia e uguaglianza sociale. Già, ancora. Siamo nel 2020, abbiamo studiato sui libri di scuola Martin Luther King, abbiamo letto Le avventure di Huckleberry Finn e abbiamo visto eleggere un presidente nero. Eppure non siamo ancora riusciti ad andare avanti, a cancellare per sempre questa piaga inconcepibile dell’essere umano: il razzismo.
Qualcuno dice che la speranza è l’ultima a morire, sarà forse per questo motivo che Beyoncé ha deciso di parlare, poco fa, rivolgendosi alla generazione più giovane: quella dei diplomati e dei laureati, alla maratona di saluto via YouTube organizzata dagli ex inquilini della casa bianca. «Siete qui nel bel mezzo di una crisi globale, una pandemia razziale e di un moto mondiale di indignazione per l’assassinio insensato di un altro essere umano nero disarmato. E ci siete riusciti. Siamo orgogliosi di voi», ha detto emozionata. «Grazie per aver usato la vostra voce collettiva per far sapere al mondo che la vita degli afroamericani è importante. Il vero cambiamento è iniziato con voi, questa nuova generazione di liceali e laureati che festeggiamo oggi».
Era il 28 aprile quando tramite Skype mi hanno proclamato dottore. Nessuno aveva idea di cosa il futuro avesse in serbo per noi. Ho sentito quelle parole appartenermi e unirmi a questa pluralità di persone che lotta per un obiettivo. Una pluralità senza differenze di razza, sesso o orientamento sessuale. Che sia, anche per voi, il momento del cambiamento. Il momento dell’obiettivo comune. Che sia, per tutti, il momento di aprire gli occhi e di non chiuderli mai più. Ah, dimenticavo. La mia tesi di laurea s’intitolava Oh, Freedom. Forse, e dico forse, non è una coincidenza.