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Mark Lanegan non si nasconde di fronte al suo passato

Quella di Mark Lanegan è una storia con cui non è facile relazionarsi per un ascoltatore comune; è una storia di abusi e di eccessi che rientra perfettamente all’interno dello stereotipo del vivere al limite. Quella di Mark Lanegan è una storia di dipendenza, criminalità, instabilità famigliare e solitudine. Tutte stabilmente impresse nella sua persona già dalla prima adolescenza. In mezzo a questo miscuglio di dolore e di angoscia – ulteriormente enfatizzato in seguito alla morte dell’amico e collega Kurt Cobain – la musica è stata, a sua stessa detta, il collante che gli ha permesso di non crollare nel baratro e di risalire, tra mille difficoltà, senza tornare indietro. “I’m high up in the air/And never coming down”, canta in Apples From A Tree, seconda traccia del nuovo disco, Straight Songs of Sorrow. Una promessa di redenzione, così come una speranza, probabilmente. Oggi, insieme all’uscita del suo dodicesimo album, Lanegan celebra venti anni di sobrietà.

Straight Songs of Sorrow, però, non è il progetto di un uomo soddisfatto di sé e della sua nuova identità; la sua voce è sì una voce di redenzione, ma una redenzione sofferta. La disillusione e la malinconia che emergono da queste «canzoni di tristezza» fanno percepire come il prezzo che l’artista ha pagato per essere al punto della sua vita in cui si trova sia stato alto e che la sua anima è ancora perennemente tormentata, senza possibilità di migliorare. “I’m a sick sick man/My days are numbered”, canta in Ballad of A Dying Rover. Lanegan non si nasconde di fronte al suo passato ma anzi, lo affronta con consapevolezza di chi sa di avere sbagliato e di non poter tornare indietro. “I paid for this pain/I put in my blood”, dice in Stockholm City Blues, come a raccontare a sé stesso e all’ascoltatore il suo dolore scaturisci dai propri errori, e che quindi la colpa è sua. È proprio il dolore, insieme alla morte, la tematica più ricorrente all’interno di Straight Songs of Sorrow. Il dolore inteso in tutte le sue forme: dal dolore fisico di Ballad Of A Dying Rover al dolore che proviene dall’inesorabilità del pentimento e dall’assenza del perdono che emerge in Burying Down; dal dolore sentimentale di The Game of Love e At Zero Below al dolore che proviene dalla dipendenza, prevalente in Ketamine. Sono tutti dolori che Lanegan affronta con la franchezza di qualcuno che non solo li ha provati tutti, ma ha anche avuto il tempo di esaminare l’origine e lo conseguenze di ognuno di loro, e ne è uscito provato ma maturato.

Da un punto di vista prettamente musicale, Straight Songs of Sorrow è un prodotto estremamente coeso ma non monotono, in cui le sonorità sono cucite in maniera perfetta per accompagnare e far risaltare la profonda e graffiante voce di Lanegan, il quale riesce ad adattarsi in maniera perfetta sulle diverse strumentali. Le produzioni alternano l’utilizzo di synth, come in I Wouldn’t Want To Say, alle memorabili chitarre di Apples From a Tree e Stockholm City Blues, uno dei pezzi più riusciti. Non mancano archi e organi, tutti utilizzati con l’intento di creare un’atmosfera che si sposa perfettamente con la malinconia che emerge dalle tematiche affrontate. Insomma, Straight Songs of Sorrow è un prodotto emotivamente difficile da recepire, a tratti persino straziante. Ma siamo di fronte ad un progetto genuino, che scaturisce da un’esigenza di esternare il dolore. E come tutte le cose sincere, riesce a toccare l’ascoltatore, inducendolo a riflettere su sé stesso e sul mondo che lo circonda. Una caratteristica che poche opere riescono a riservarsi nel mercato musicale odierno.