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Ozzy Osbourne, “Ordinary Man” non è un album ma un pugno allo stomaco

Gli epitaffi, solitamente, sono dei componimenti in versi che contengono le lodi del defunto. Solitamente. C’è poi chi gli epitaffi se li scrive da solo, e lo fa con una grandezza, una naturalezza senza eguali. Perché abbiamo iniziato a parlare di morte e di epitaffi? Perché l’ultima fatica discografica di Ozzy Osbourne suona realmente come un epitaffio, un congedo (quasi) definitivo. Ozzy sta male e la stessa stesura dei brani è stata vissuta come una sorta di terapia per affrontare la malattia e il dolore. «È stato molto divertente fare questo disco ed è un lavoro molto diverso dai miei precedenti album», racconta Ozzy. «Lo abbiamo registrato rapidamente, cosa che non ho mai fatto dal primo album dei Black Sabbath. Questo ha reso tutto il processo diverso, e la cosa in realtà mi è piaciuta».

In Ordinary Man, dodicesimo lavoro in studio dell’ex Sabbath, c’è tutto Ozzy. In cinquanta minuti è condensata una vita intera, tra eccessi, cadute e risalite. L’album, dal punto di vista strettamente musicale, tenta di essere epico e, le circostanze di cui abbiamo parlato, in un certo qual modo, lo rendono tale. Come abbiamo detto, c’è tutto Ozzy, c’è una carriera intera: c’è l’heavy metal, c’è la classicità delle ballatone, c’è quel gusto quasi beatlesiano per la melodia catchy. C’è tutto insomma e ci sono anche Elton John, Chad Smith, Slash, Duff Mckagan, Andrew Watt, Post Malone, Tom Morello e Travis Scott. Ma, soprattutto, c’è ancora tanto, tantissimo Ozzy: Straight To Hell, per esempio, ha tutti i crismi delle migliori cose fatte del vampiro del rock così come Under The Graveyard. C’è l’ipnotismo di All My Life, c’è la forza di Goodbye e la bizzaria di Scary Little Green Men.

Fa storia a se, invece, la title track, Ordinary Man cantata assieme al già citato Elton John. È sicuramente il momento più emozionante, più alto, più vivido dell’intero album e non può non suonare come una sorta di testamento spirituale di un uomo che ha fatto degli eccessi la propria vita, e che professa, apertamente di non voler morire come “an ordinary man”.

E non mancano neanche le sorprese. Prendete It’s A Raid, in combutta con Post Malone: è velocissima, un punk lo-fi costellato di “fuck”. E ancora più sorprendente è il risultato di Take What You Want, dove la mano di Post Malone si sente eccome, mettendo in comunicazione due spettri sonori apparentemente incomunicabili. Insomma, in un disco che suona come un auto epitaffio, che ha come leitmotiv la fine della lunga carriera del Vampiro delle Tenebre, non mancano interessanti spunti che strizzano l’occhio al futuro. Che furbacchione il Signor Osbourne! Che sia davvero il suo ultimo disco? Probabilmente sì, l’età e la malattia soprattutto avanzano, ma mai mettere la mano sul fuoco con Ozzy, sempre imprevedibile e imponderabile. Noi non possiamo proferir parola, non lo sappiamo. Per ora ci lascia in eredità cinquant’anni di carriera e questo disco bello e straziante, antico e moderno. Ci lascia così, a modo suo. Alla grande.