L’immagine migliore per inquadrare immediatamente Generic Animal (al secolo Luca Galizia, classe 1995) è quella evocata nel brano che apre il nuovo album: una piccola peste che lancia i sassi contro un alveare “per il brivido e il rischio”. Qualche giorno fa ci ha dato appuntamento a Milano per parlare di Pesto, un disco di dodici brani «scritti nella solitudine di un sottotetto milanese: su un divano-letto Ikea con dietro i cuscini per la schiena, in braccio una chitarra, sulle gambe i-rig e garageband, a fianco le gocce per dormire», che unisce le sonorità trap con il math rock e echi emo che sconfinano nel post-rock, sfumature R&B e attitudine hip hop.
Racconti nelle tue canzoni un certo “vivere di ricordi”, tipico della tua generazione. È questo il tuo processo creativo: partendo dai ricordi, li attualizzi alla realtà di tutti i giorni?.
Il disco contiene ricordi personalissimi famigliari e anche alcune reference musicali, nel senso che, rispetto ai miei lavori precedenti, ho suonato molti più strumenti. Qua c’è molta più melodia e il tutto viene fuori più organico. Il ricordo anche di far parte di un gruppo, di occuparsi solamente del cantato e della chitarra, trovarsi in una stanzetta tutti assieme, al posto che in uno studio.
La cover del disco dà una sensazione di richiamo e di nostalgia nei confronti della giovinezza. Come le tracce dell’album si rispecchiano nell’immagine che fa da copertina al disco?
Come idea secondo me è molto concettuale. Ad esempio, c’è questo bel contrasto tra la dinamicità del disco e la staticità della sua copertina. Le reference principali sono i giocattoli, i fumetti e le videocassette di vecchi film, che mi hanno accompagnato durante la mia infanzia. L’omino viola è nato da uno sketch fatto da me, che poi ho dato da rielaborare a due creativi, Alvin e Daniel. Il fatto che abbiamo lo stesso background culturale e il fatto che loro siano veri grafici, a differenza mia, ha fatto funzionare il tutto. Per quanto riguarda le tracce, il “dentone” è presente in un po’ di canzoni, sia come parola che come oggetto del pezzo stesso; ma anche il cellulare, che richiama l’attività dello “scrollare” perenne, si trova spesso all’interno di quest’album.
Come mai hai scelto di portare un pezzo con un artista della tua stessa provincia di Varese come Massimo Pericolo?
Io e Massimo Pericolo ci siamo sempre considerati, anche prima di fare musica sul serio e seppur con gusti musicali totalmente differenti, in quanto a lui piace il rap, mentre io preferisco il punk. Fargli sentire il mio disco era d’obbligo. La sua partecipazione al disco è venuta da entrambi: io avrei voluto includerlo e lui avrebbe voluto prendervi parte. All’inizio avevo un’idea molto forzata dei featuring, in quanto non volevo includere artisti solo allo scopo di creare una marchetta e perché ricercavo artisti a seconda delle mie preferenze del momento. Poi ho iniziato a pensare che le persone al lavoro sul progetto sono quelle che ci credono di loro spontanea volontà. Franco126 forse era il più outsider nella cerchia di mie conoscenze, ma da quando ha cominciato a lavorare per la Love Gang c’è stata sempre nell’aria l’occasione per collaborare, che abbiamo coronato con questo album.
Emoranger era il tuo scorso disco e la figura dell’emo si identifica anche per il fatto che ascoltavano canzoni che trasmettevano le loro emozioni senza filtri. Non credi che, da questo punto di vista, Presto sia più emo di Emoranger?
Emoranger è più spudorato nel comunicarti ciò che vuole dire, mentre Presto butta fuori a colata contenuti più introspettivi. Emoranger era più edulcorato, sia nei concetti che nella produzione, rispetto a Presto. Il concetto di “emo” è arrivato dopo la sua stessa morte, nel senso che gli esponenti della musica che si identifica con questo sottogenere non la definivano tale. La gente capì che erano emo solamente quando smisero di suonare.
Hai esordito cantando i testi di Jacopo Lietti, com’è stato interpretare la sua scrittura, piuttosto particolare, e com’è stato, invece, dare voce ai propri testi?
Entrambe le esperienze mi hanno rappresentato molto. All’inizio è più divertente interpretare i testi altrui, in quanto hai maggiore libertà di pensare alle restanti componenti del pezzo. Questa per me è stata una grande opportunità e senza un amico come Jacopo non penso che avrei iniziato a suonare come faccio ora e a scrivere testi italiani. Era un periodo bruttissimo, in cui non riuscivo più a suonare o scrivere col gruppo (i Leute, ndr.) e continuare a scrivere da solo era un’esperienza che mi mandava in tilt.
C’è qualche artista il cui ascolto ha influito nel tuo processo creativo?
Negli ultimi tre anni ho ascoltato molto i Brockhampton. Penso siano la boy band più stilosa sul pianeta. Poi il resto dei miei ascolti è molto variabile, passo da musica attuale ad ascolti più storici, che magari romanticizzano la mia scrittura in quel determinato periodo. Per quanto riguarda il panorama italiano, ci sono pochi artisti che mi gasano sul serio. Venerus e thaSupreme mi piacciono, anche se del secondo non riesco a capirne i testi. È talmente fresco che non riesco nemmeno a comprenderlo.
Scarpe #2, ultima canzone del disco, sembra sia una chiusura del cerchio (in quanto il primo brano del suo primo album s’intitola Scarpe #1, ndr.). Questo simboleggia l’inizio di una tua nuova fase artistica?
Sicuramente ci sarà un Scarpe #3. Era un pezzo che già suonavo qualche anno fa, ma che poi ho rimaneggiato fino ad ottenere questo risultato. È un po’ l’antitesi di Scarpe #1, ma allo stesso tempo risulta essere una risposta romantica a questo pezzo, pur essendo nato per scherzo alla fine. Inizialmente, la mia idea era quella di intitolarlo Scarpe con ventose, un titolo sicuramente più stratificato.