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Per i Green Day il punk non è più una priorità

A distanza di dieci giorni dall’uscita di Father Of All The Motherfuckers, ultima fatica discografica dei Green Day possiamo dire due cose: la prima è che si tratta del disco più breve mai inciso dalla band di Billy Joe Armstrong (solo 26 minuti); la seconda è che si tratta di un disco distante dalla grandeur di American Idiot, ma anche lontano dagli ultimi, non indimenticabili, lavori della band (Revolution Radio e la trilogia ¡Uno! ¡Dos! ¡Tré!). I brani sono decisamente punk ma, a detta dello stesso Billi Joe, le influenze sono state tante: da Little Richard e il rock & roll anni ’50 alla Motown passando per le icone del glam. Aiutati dalla produzione dei fidati Chris Dugan e Butch Walker, Billie Joe, Mike Dirnt e Tré Cool hanno messo insieme dieci pezzi velocissimi, sferraglianti, elettrici. Si parte con la carica di Father Of All… e il falsetto che rende quasi irriconoscibile le corde vocali di Billi Joe. Fire, Ready, Aim ha un piglio decisamente alla Hives mentre Oh Yeah! (tributo a Joan Jett e, per forza di cose, a Gary Glitter) è un glam melmoso. Meet Me On The Roof attinge in profondità il suono della Motown per passare poi a Stab In Your Heart, un rock & roll, grezzo, ruvido, velocissimo. I Green Day fanno i Green Day in Sougar Youth dove rispolverano stilemi delle loro prime creazioni musicali. Atmosfere desolate e desolanti in Junkies On A High. Take the Money And Crawl e Graffitia riportano cori e ricerca di innovazione (per la band). La verità? Da una band come i Green Day ci aspettiamo sempre qualcosa in più. È sicuramente un disco fresco, immediato. Te lo spari subito, ma cosa resta? Probabilmente poco o nulla. Non si raggiungono vette, non ci sono apici solo una manciata di buoni pezzi che non aggiungono ne tolgono nulla alla gloriosa carriera trentennale dei Nostri. Non memorabile ecco, tuttavia apprezzabile.