Il processo di estrazione di un diamante può essere di due tipi: il primo consiste nel frantumare la roccia a picconate, il secondo consiste nel cercarli nel fango dei giacimenti alluvionali. Si calcola che le miniere primarie producano mediamente un carato di diamanti ogni 3,5-4 tonnellate di roccia estratta, mentre dai giacimenti alluvionali si estrae solo un carato ogni circa quindici tonnellate di materiale lavorato. Diamanti e fango è l’ultimo album di Grido e già dal titolo sembra che suggerisca quanta fatica occorra per arrivare a certi traguardi, perchè certi diamanti vanno cercati a mani nude proprio nel fango. È un disco urban in cui sono confluite tante esperienze di vita e varie contaminazioni musicali. Ma soprattutto è un disco pieno di contenuti e messaggi di profonda rivalsa. Ed è proprio da qui che partiamo, dai contenuti.
Un album tanto pieno di contenuti, in un panorama rap sempre più contenutisticamente povero. Come nasce questo atto di ribellione?
Nasce dalla mia voglia di fare le cose a modo mio, quindi non lasciare che la mia musica sia influenzata dai trend e da quello che fanno gli altri. Poi io sono convinto che comunque il rap debba avere ancora questa missione: raccotare chi lo sta facendo e il suo punto di vista. Se tutti cominciassero a dire le stesse cose, a parlare di cose frivole, tutto questo verrebbe a mancare. Questo poi non vuol dire che il rap debba essere per forza politicamente impegnato o con dei messaggi super profondi, però io sono convinto che bisogna raccontare una storia ed un punto di vista.
E facendo un bilancio, Grido oggi è soddisfatto?
Grido è assolutamente soddisfatto e orgoglioso della strada fatta fino ad adesso, ma una parte di lui ha ancora fame, ha ancora voglia di dimostrare che si può fare di più. Grido è assolutamente soddisfatto, però questo non vuol dire sentirsi arrivato.
Tanti i featuring; da tuo fratello J-Ax a Il Cile. C’è un artista con cui non hai mai lavorato e con cui ti piacerebbe duettare?
Un artista che secondo me è un mito, anche se da molti anni è più attivo nel cinema che nella musica è Will Smith. È il mio mito. Se io penso a Will Smith, mi viene in mente The Fresh Prince Of Bel Air e anche i dischi che ha fatto prima di quello. Sta combinando della musica nuova, e immaginarmelo ancora come musicista non mi è molto difficile. Se penso ad artisti italiani, invece, mi vengono in mente dei nomi più pop che mi piacciono da sempre come Cesare Cremonini e Tiziano Ferro.
Coi Gemelli DiVersi hai segnato una generazione. Recentemente hai dichiarato di non esserti pentito di aver lasciato quel progetto. C’è qualcosa di quegli anni che ti manca?
Di quegli anni mi manca un po’ il ritmo che si aveva nell’ascoltare la musica. Ora è tutto hype prima di un disco, e anche i dischi più riusciti dopo qualche settimana vengono dimenticati dal pubblico. In quegli anni invece un disco aveva una vita molto più lunga, e succedeva anche che non ci si accorgeva di un disco per sei mesi, e magari dopo sei mesi quel disco esplodeva. Ora è tutto più usa e getta e questo mi rattrista.
Quasi dieci anni fa usciva il tuo primo lavoro solista; quanto di quel ragazzo è presente in Diamanti e fango?
Musicalmente parlando ho cercato di alzare l’asticella, di alzare il livello di quello che faccio e di non ripetermi. Emotivamente parlando quel ragazzo è ancora ben presente, perché non bisogna mai uccidere il ragazzino ribelle che abbiamo dentro. Un po’ come dicevo prima, ho ancora voglia di godermi il fare musica perchè è veramente quello che mi piace fare, ed è quello che pensava quel ragazzino.
Hai spento quaranta candeline, ma molti dei tuoi colleghi hanno la metà dei tuoi anni. Come ci si sente a muoversi in questo panorama?
In realtà ce ne sono anche altri che hanno le mie stesse candeline ma magari non lo dichiarano così apertamente, o in qualche modo cercano di nasconderlo. Io invece me ne frego, anzi per me è un orgoglio. Sai, fare certa roba è più facile se hai vent’anni, se ne hai quaranta diventa ancora più una sfida, e quindi io posso dire ai ragazzini: «Ok, vediamo se tra vent’anni sarai ancora qui».
Hai qualche consiglio da dare alla nuova leva?
Quello di non pensare che sia tutto oro quello che luccica. Di essere preparati al fatto che fare la vita da artista è una figata, ma comprende tante sfide, tanti momenti difficili, tante incazzature. Essere preparati a questo. Se si immmagina di sfondare al primo singolo che funziona, poi si rimane scottati.
Molti di loro intraprendono il percorso dei talent show. Cosa ne pensi di questi meccanismi televisivi?
Non sono un amante dei talent ma non li disdegno a priori. Sono convinto che nel caso ci sia talento da parte dei concorrenti, possa essere un gran trampolino di lancio. Una grande vetrina. Bisogna stare attenti a non cadere nel tritacarne mediatico in cui può trasformarsi un talent show, e credo che qualunque sia l’esito della gara televisiva tutto il lavoro viene dopo. Quello può essere un inizio che può darti tanta esposizione, ma a prescindere da dove ti posizioni, tutto quello che devi dimostrare inizia nel momento in cui finisce il talent. Riuscire a costruirsi una carriera dopo aver fatto un talent non è scontato neanche per chi vince.
Il tuo linguaggio è transgenerazionale, col tempo, però, il pubblico è cambiato.
Ci sono alcune cose che sono immortali. A proposito di linguaggio, oggi non si dice più batti cinque però per esempio se penso a Milano, il “bella zio” è uno slang che si usava alla fine degli anni novanta e i ragazzini di adesso lo usano ancora. Ci sono delle cose che sono assolutamente crossover rispetto alle mode.
E sulla filosofia del trapboy?
Intendi abiti firmati e fare soldi?
Sì, la condividi?
Credo che non sia una cosa legata soltanto alla trap o alla nuova generazione. Più ampiamente, è legata alla società di oggi. Viviamo in una società che ti fa pensare che se non appari, se non ostenti, se non sei pronto a sbandierare i tuoi risultati in campo economico, vali meno degli altri. Io credo che comunque ci siano caratteristiche all’interno dell’essere umano che valgono di più di quanto hai sul conto in banca.
Il rap di cui sei stato aprifila si è mosso nei palazzetti, fino ad arrivare a riempire gli stadi. Auspicheresti un ritorno al rap da strada oppure sei felice di questa evoluzione?
In realtà sono felice. Già con i Gemelli DiVersi, in tempi in cui non era l’unico contenuto da sbandierare durante la promozione di un disco, siamo stati tra i primi a organizzare un tour nei palazzetti. Vedere che adesso il rap è arrivato negli stadi, generando quel tipo di introiti e quel tipo di attenzioni nei confronti del genere, non può che farmi piacere. Poi ho visto anche concerti in stadi che mi sono piaciuti meno di concerti che ho visto in piccoli club. Quindi, credo che non sia la dimensione a decretare la bellezza o l’emozione.