Un contadino giapponese ha trovato un quadrifoglio a cinquantasei petali. In realtà non l’ha proprio trovato, l’ha coltivato nel suo giardino. Quindi ci ha messo del suo. E probabilmente gli ha portato quattordici volte più fortuna di un quadrifoglio comune. La fortuna dell’hip hop assomiglia ad un quadrifoglio con centinaia di petali. Fenomeni complessi come i generi trap e rap, hanno intercettato un linguaggio particolare, una generazione giovane, uno stile nuovo, leggero e impegnato e così il nuovo ha preso il posto del vecchio, seppellendo il passato del belcanto nazionalpopolare e non. Neanche i pilastri della musica pop reggono il confronto in fatto di vendite. In verità non provano neanche a difendersi, schiacciati inesorabilmente dai fenomeni che da YouTube arrivano nello stereo di milioni di persone. La classifica FIMI è l’indicatore. La vela maestra che ci suggerisce in che direzione tira il vento, ed il vento da due anni ha sempre la stessa direzione, soprattutto da quando la FIMI tiene conto degli ascolti in streaming.
È successo con Sfera Ebbasta, Gué Pequeno, Salmo, Marracash e quando pochi giorni fa è toccato a Tha Supreme eravamo già preparati. Quasi fosse scontato. Uno dietro l’altro i pezzi dell’album, a comporre una classifica che pare quasi la tracklist dietro la copertina. Nessun infiltrato speciale, tranne altri pochi rapper. Non c’è spazio per nessun altro. Li immagino asserragliati nelle loro case discografiche, con miss FIMI legata ed imbavagliata ad una sedia da ufficio e dei grossi fucili in mano, come dei tatuati gangster della discografia moderna. Probabilmente non ci sono davvero ostaggi, ma la presenza quasi esclusiva di questi artisti riesce nell’intento di far passare il messaggio che al mondo esista davvero solo quel tipo di musica. Quel tipo di musica che fa indignare tanto i boomer da tastiera, e che nel frattempo si insinua nei telefonini dei loro figli come un virus pericoloso. E se la tecnologia streaming premia questi artisti, quale sarà la contromossa del bel canto, del pop italico e non, e di tutta la musica leggera? Occupare le radio.
Cancellati rapper e trapper dalla programmazione musicale, le radio finiscono per essere uno strumento per restituire quell’equilibrio mancante. Spariti, come le monete in mano ai prestigiatori, come i calzini dopo la centrifuga, o come i finanziamenti del Mose in mano a certi politici. E no, qualche canzone passata per sbaglio non fa che ribadire ciò che è chiaro a tutti. La quota rap meno estrema serve solo come deterrente, l’hip hop in radio non passa. E probabilmente non passerà mai. Quindi sì, anche se non lo sapete, il mondo della musica è in guerra oggi. Una guerra impari. Pistole laser contro fionde o Navicelle spaziali contro vecchie Cadillac. Se la favola fosse raccontata così, certo sarebbe ben più allettante della verità. Ma purtroppo non è così. La verità è che non esiste nessuno scontro, nessun duello, e assolutamente nessuna guerra.
Certo, piacerebbe anche a me pensare alla musica come ad una rissa al bar, ma la verità è che la realtà discografica italiana, con la moltiplicazione dei supporti di distribuzione e lo sviluppo dello streaming, vive più vite di quante ne riusciamo a contare. Ma allora perché i grandi nomi che collezionano carrellate di passaggi radiofonici restano fuori dalle classifiche ufficiali? L’ascolto del ventunesimo secolo viaggia online, e il peso specifico dei servizi streaming supera di gran lunga le nostre aspettative stravolgendo la routine del dominio pop della discografia mondiale. Le fasce d’età che si rivolgono alle diverse piattaforme incidono maggiormente sul tipo di brani in classifica e sul tipo di ascolto perpetuato. Il 71% dei giovani tra i 16 e i 24 anni ascolta musica in streaming. Non pochi, vero? E quanti di loro sono fieri ascoltatori dell’universo hip hop? Il 53%.
Se ciò non fosse abbastanza, in base a numerose ricerche, chi ascolta questo genere lo fa in modo più ripetitivo, ed i ragazzi hanno playlist da dieci brani in loop parecchie volte in un giorno, sono meno inclini alla varietà radiofonica, che invece punta ad un coinvolgimento più passivo dell’ascoltatore a casa o seduto in macchina. Così gli ascolti salgono e generano utili. Il brano che macina più streams, a quel punto, viene inserito in qualche playlist molto seguita e ben posizionata. Alea iacta est: il brano è virale. Sei primo in classifica, anche se in realtà hai venduto meno di Umberto Tozzi (o più verosimilmente di Zucchero). Oggi l’errore più grande è pensare alla classifica FIMI come unico indicatore di successo. Essere primi in classifica significa veramente essere primi? Cosa succede se sei contemporaneamente primo, secondo e terzo? Come ti senti a salire su un podio che non è condiviso con nessuno?
Forse, e dico forse, i live, i biglietti venduti, gli album autografati, fanno una panoramica più completa della situazione. Forse i parametri sono da rivedere. Forse c’è da ristabilire ordini e importanze diverse. O forse è questa la modernità alla quale ci dobbiamo solo abituare. Forse stiamo solo familiarizzando con la velocità, con l’ascolto paranoico, e con la completa assenza di varietà. Forse, e dico forse, la guerra c’è davvero. Ma gli unici ostaggi siamo noi.