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Martin Scorsese è il Mike Tyson dei gangster movie, e “The Irishman” ne è la conferma

Il vero genio è spesso frainteso, il tipico incompreso di cui la storia trabocca di esempi; vede troppo avanti, in una visione chiara a lui e pochi eletti soltanto, ma quando viene rinchiuso in un recinto più o meno grande, è capace di creare vere forme d’arte; d’avanguardia sì, ma comprensibili anche ai comuni mortali. La storia ci insegna da questo punto di vista: è Manet ad essere celebrato anche in vita; Manet che si affaccia all’impressionismo, che fa da apripista ma in maniera cauta, quasi come tastasse il terreno; avanti, ma con anche radici che gli permettano di essere parzialmente compreso. Manet sì, Van Gogh no. L’ora amatissimo Van Gogh che però vendette in vita un solo quadro. Da un lato il genio controllato, dall’altro quello che rompe tutti gli argini.

Nel cinema è lo stesso: l’idea, il colpo vincente, deve interfacciarsi con le problematiche di distribuzione, il budget, la durata limitata per rendere vendibile il film; tutta una serie di forzature (non necessariamente intese in senso negativo) che rendono godibile il progetto per noi e frustrante, forse, per il suo artefice. Cosa accadrebbe se però il maestro ottenesse carta bianca, nessun limite, né economico né di durata? Assisteremmo a The Irishman, il nuovo film (tratto dal libro I Heard You Paint Housesdel di Charles Brandt) da centosessanta milioni e duecentodieci minuti di Martin Scorsese, coronamento di un sogno per lui e occasione d’oro per acquistare credibilità per Netflix. Le tematiche da sviscerare sono troppe: la durata, la scelta del cast, la trama, il paragone con la filmografia precedente.

In tre ore e mezza gli argomenti non possono che abbondare e rendere estremamente complesso scriverne in maniera completa e discorsiva; tanto vale allora bruciare le tappe ed entrare subito nel vivo della vicenda: The Irishman attraversa e scandaglia l’intera vita di Frank Sheeran (Robert De Niro), malavitoso statunitense amico del sindacalista Jimmy Hoffa (Al Pacino) e fedele sicario del boss mafioso Frank Bufalino (Joe Pesci). In sottofondo, in un contorno non di poca importanza, la vita di Frank scandisce anche i cambiamenti di un’America lontana e sbiadita dal tempo che in Scorsese torna a vivere nitida e dai contorni ben definiti. Un’America fatta di sindacati, di intrecci di potere, di cadaveri lasciati a sé stessi sui marciapiedi di una città che finge di dormire e di muri pitturati con il sangue.

Il film si avvicina a tematiche già fatte proprie da Scorsese, creatore quasi di un genere, ma stavolta The Irishman sembra racchiudere in sé il potere di decenni di filmografia. Un’esistenza racchiusa in duecentodieci minuti che devono riassumere due vite intere: quella di Frank Sheeran, al pari di quella di Martin Scorsese. Una vita intrecciata sugli schermi in cui non c’è spazio per i rimorsi: è quel che è e non ci si guarda indietro, in un’analisi profonda di connubio tra coscienza e malavita, tra famiglia, amicizia e dovere criminale in un’appartenenza che sembra prescindere da tutto il resto, il tutto orchestrato in maniera magistrale. Erano davvero necessari però, ai fini della narrazione, duecentodieci minuti?

Non so cosa sarebbe venuto fuori con sessanta minuti in meno, ma niente di ciò che si vede sullo schermo sembra fine a sé stesso, forse proprio per lo scopo ultimo del film: una vita non è fatta solo di colpi di scena, ma anche di attimi di umanità, di istanti che facciano riprendere il respiro, in cui la musica di sottofondo accompagni placida la scena senza preparare lo spettatore a chissà quale evento traumatico. Forse riducendo la durata del film ricreare attimi del genere non sarebbe stato possibile, ma chissà. E per quanto riguarda la scelta del cast, all star e non più giovane? Scorsese si riserva il diritto di girare un film autoreferenziale e regala – in un moto altruistico – la performance della vita ai propri interpreti.

Di nuovo un grande grazie a Netflix, che con il budget mastodontico messo a disposizione rende possibile l’utilizzo degli stessi attori sia per le scene della gioventù che per quelle della vecchiaia. Il ringiovanimento digitale all’inizio fa storcere il naso, ma ci si abitua sorprendentemente presto ad un De Niro non segnato da rughe o ingobbito dal tempo. D’altronde quei solchi sul viso, le grinze ai lati della bocca, le pieghe scavate nella pelle sono indice tanto del tempo che è passato in fretta, quanto dell’esperienza e di un’arte interpretativa che solo con anni e anni di lavoro si può accumulare. Insomma, non avremmo voluto nessun altro al suo posto, e sul grande e piccolo schermo preparatevi a assistere ad un piccolo miracolo; a tre ore che sembrano una, due, tre, quattro, cinque vite (quelle di De Niro, Sheeran, Al Pacino, Scorsese), ma che passeranno, purtroppo, molto in fretta.