Siamo al tramonto degli anni sessanta ed il buongiorno della pellicola arriva da un gigante del cinema: Al Pacino. Il vecchio Al (nei panni dell’agente di casting Marvin Schwarzs) fa capire al non più giovane protagonista Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), stella dei film wastern degli anni cinquanta, che la sua carriera d’attore nella Città degli Angeli è arrivata al capolinea e di come dovrebbe volare in Italia a girare qualche Spaghetti Western, filone notoriamente amato dal regista, ma profondamente odiato (forse al pari solo degli hippie) da Rick Dalton, che vede come un insormontabile problema dover fare «quei cazzo di film italiani». L’ansia del protagonista tarantiniano, comunemente noto per stranezze e stravaganze e per le sue tinte pulp (in questa pellicola volutamente attenuate), è paradossalmente quella dell’uomo comune. Di colui che vede (in questo caso il protagonista, Rick Dalton) lentamente sfumare le velleità e le speranze della giovinezza, lasciando spazio solo ad un profondo e difficilmente sovvertibile sentimento di inadeguatezza e solitudine.
Sensazioni che condivide con il suo amico stuntman Cliff Booth (Brad Pitt) la sua spalla, il suo tuttofare, la sua controfigura cinematografica ma soprattutto suo amico. I due vivono la loro disillusione negli anni in cui l’era d’oro del cinema western e della Hollywood classica sta terminando, figurando un’analogia con il destino delle carriere dei due protagonisti. Rick combatte contro l’alcolismo, piaga che lo rende inefficiente sul set, mettendolo in ridicolo davanti agli altri attori, tra cui la piccola Mirabella di otto anni. Cliff ha invece alle spalle un grave episodio di violenza (ha forse assassinato l’insopportabile moglie) con ripercussioni giudiziarie che ne ostacolano la possibilità di trovare lavoro nei set della piccola e pettegola Hollywood. Il contrasto tra lo stato d’animo dei due e l’invece sempre vivace attività del jet set hollywoodiano è acuito dalla collocazione geografica della casa di Rick Dalton.
A pochi metri dalla sua lussuosa abitazione abita infatti il più acclamato regista del momento, Roman Polanski e la sua bellissima moglie, astro nascente della recitazione, Sharon Tate (Margot Robbie). Pur essendo praticamente contigue le vicende degli abitanti delle due ville procedono su binari inesorabilmente separati, quasi a sottolineare la profonda distanza in cui vengono a trovarsi in quel momento le carriere di questi quattro personaggi. I cancelli di casa Polanski sono idealmente aperti mentre per Dalton e Cliff si stanno chiudendo una volta per tutte. Solo l’esilarante ed inaspettato finale vedrà per un attimo questi due mondi apparentemente irriducibili ricongiungersi. La pellicola è nel suo complesso un lungo e nostalgico racconto di una Hollywood lontana, tra colori accesi, dolci e frivole atmosfere favorite anche dall’azzeccata scelta di brani come Mrs Robinson di Simon & Garfunkel o California Dreaming di Josè Feliciano, in cui i personaggi frutto della mente tarantiniana si confondono con figure reali, dai già citati Polanski e Tate passando per Steve McQueen e Jackie Chan. Quest’ultimo (interpretato da Mike Moh) in una memorabile scena verrà alle mani sul set di un film con stuntman Booth.
Nonostante tutti i suoi gridolini e le sue mosse, il maestro di arti marziali non eviterà, con la complicità dell’imperturbabile Cliff, di ammaccare la portiera di una macchina con la propria testa. Cliff oltre che essere l’amico perfetto di Rick veste anche i panni del giustiziere: serafico, buono, ma anche tutto d’un pezzo. È lui che in più occasioni che si trova ad avere a che fare con la folle e sgangherata famiglia di Charles Manson, prima rifiutando le avances sessuali di una giovane adepta della setta, poi nella sue visita/ispezione allo Spahn Movie Ranch ed infine anche grazie all’aiuto del suo amato pitbull Brandy nella convulsa scena conclusiva. Ed eccoci alla fine appunto: la storia, quella vera, ci racconta di come il 9 agosto 1969 Sharon Tate fu uccisa nella sua abitazione di Beverly Hills, insieme con quattro amici, dai seguaci di Charles Manson, ma il buon Quentin decide che la storia è stata ingiusta ed ecco che allora il cinema, il suo cinema, con una scena spettacolarmente e perfettamente tarantiniana, ha il compito di fare giustizia.
Oltre la perfetta armonia tra i due sovrapponibili protagonisti Brad Pitt e DiCaprio, due stelle di primissima fascia nella loro seconda giovinezza cinematografica, è proprio la dolcezza e l’armonia la cifra stilistica più rilevante della pellicola per almeno trequarti. La dolcezza della placida tranquillità e sobrietà di Cliff, delle molte lacrime di Rick Dalton, prima di rabbia e delusione perché non riesce a dimostrare sul set tutto il suo valore ma poi anche di gioia e liberazione quando con una magistrale interpretazione si guadagna il rispetto della piccola attrice in erba Mirabella. C’era una volta… a Hollywood non è sicuramente il classico pugno allo stomaco a cui il grande regista di Knoxville ci ha abituato ma è una lunga e soave carezza prima dell’immancabile finale griffato Tarantino.