Eddie Vedder sale sul palco con tutta la sua semplicità, quella che si può permettere. «Dopo aver bevuto per più di vent’anni Barolo, non avrei mai pensato di cantare in un posto con lo stesso nome», dice. Un nome – il suo – incredibile per questa minuscola location. Forti dell’onda emozionale del Firenze Rocks di tre giorni fa, ricordata sia da Eddie che dal suo supporter di lusso e amico Glen Hansard (anche lui sul palco ci mette tutta la sua passione, il talento e l’empatia), si guarda intorno stupito. Gli ottomila lo avvolgono: «Non ho mai suonato così vicino alla cucina di qualcuno», afferma sorridendo. Sul palco c’è un cestino da picnic e fiumi di vino che scorrono per tutto il live: è la versione storyteller di Eddie Vedder, in panni più bobdyliani che in quelli da frontman della band grunge più famoso del pianeta. Ma d’altronde non serve molto altro se hai talento e carisma da vendere.
Per quasi tutto il tempo Vedder suona da solo, voce e chitarra, e solo ben oltre la metà del concerto arriva un quartetto d’archi (e sul finale anche Glen Hansard a dargli man forte). Due ore di show, ventinove pezzi con cui fa slalom fra canzoni da lui firmate, dei Pearl Jam e capolavori di Tom Petty e George Harrison, proprio come se stesse suonando nel suo salotto di Seatle, il tutto fornendo una sua personale versione dei brani in scaletta. Inizia con Keep Me in Your Heart di Warren Zevon, poi prosegue con Cat Stevens, Beatles e Pink Floyd (Brain Damage) fino al gran finale, ormai un classico delle sue esibizioni, con Rockin’ in the Free World di Neil Young. Interagisce con le prime file e si fa intenerire da bambina sulle spalle del padre che gli manda baci: ladies and gentlemen, è lo spettacolo del talento e del rock ma soprattutto è lo spettacolo della semplicità.