L’anacronismo di Bruce Springsteen è un dono. Fuori dal tempo, dalle logiche, dalle mode, il Boss torna con Hello Sunshine, una ballad che sarebbe potuta uscire anche negli anni settanta. C’è tutta l’America country in un pugno di suoni e parole, c’è un’auto nel deserto, i cactus, le luci radenti, l’introspezione di un cantautore morto e rinato decine di volte dalle proprie ceneri. Ci sono anche importanti richiami alle figure di un’America dimenticata, quella di un sogno a stelle strisce mai diventato del tutto realtà. Una risposta, uno schiaffo per meglio dire, alla contemporaneità, perché il country è prima di tutto un live style, la musica che ne deriva è al massimo una declinazione.
La malinconia che avvolge il brano mette in evidenza la depressione del Boss – recentemente raccontata nella sua biografia – e di una parte del Paese che guarda ancora il mondo in 4:3, in pellicola, attraverso i finestrini di una Thunderbird che passa lenta, come lenta e dilatata è la vita country. Di tanto in tanto passa un brano che fa colonna sonora. Non è rock e non è pop, non è Presley e non è Dylan, è Bruce Springsteen.