«Tu vo fa il milanese, milanese, ma sei nato a Platì»: se non l’avete già fatto, rileggete il virgolettato cantando, creiamo la giusta atmosfera. C’è poco da fare, indossare la giacca e la cravatta potrà anche essere universalmente riconosciuto come sinonimo di eleganza, ma non necessariamente di adeguatezza. È quello che, tra un miracolo e l’altro (pseudonimo clericalmente scorretto con cui viene definito un omicidio) sostanzialmente ci racconta Lo spietato, uscito al cinema in una breve parentesi di tre giorni e dal 19 aprile disponibile su Netflix.
Lo fa attraverso la parabola di Santo Russo (alias Riccardo Scamarcio), ragazzo calabrese di Platì, emigrato con la famiglia a Milano alla fine degli anni sessanta. Un contesto estremamente modesto, sottolineato da un quartiere più vicino al vecchio paesello di provincia, che all’immaginario sognato della grande metropoli meneghina. Lontani da quello che rappresenta il reale punto d’arrivo, lo status symbol del Duomo e della Madunina. Un padre padrone poco incline al dialogo, risparmiato dalla mala calabrese, ma sostanzialmente invitato ad andar via a scanso di ripensamenti. Una madre passiva e un fratello ancora troppo piccolo per esprimere chissà quali particolari attitudini.
Un ancora ragazzo, Santo, che stanco d’esser definito magrebino (alternativa originale a terrone), inizia ad assumere parlata e atteggiamenti da milanese, alimentando al con tempo una particolare attrazione verso il mondo della malavita calabrese, la cima della catena alimentare (un cittadino del mondo, ma con le radici ben chiare). Il percorso del protagonista viene tracciato e segnato la notte del Capodanno 1967. Ignorato l’ordine tassativo del padre di festeggiare in casa assieme a un’altra famiglia di Platì (con una sorta di matrimonio combinato in vista per lui), Santo finisce per essere condannato quattro mesi all’università della vita (per i non frequentanti carcere minorile Beccaria). Il padre avrebbe potuto evitarglielo, ma in virtù del torto subito dal figlio, se ne lava le mani. Tutto per un imprevisto rapporto causa- effetto (eufemismo in questo caso che sta a indicare che sì, hai fondamentalmente sfiga però un po’ te la sei cercata), che il protagonista, ancora giovane, non era stato in grado di calcolare.
Andando avanti nel tempo Santo è cresciuto, i soldi e i campi di business, chiamiamoli così, pure. In un percorso che fa seguito ai trend della mala della Milano di quegl’anni: partendo dalle rapine, passando per il subappalto, ai sequestri, finendo con la raffinazione e la distribuzione d’eroina. Un progetto imprenditoriale a tutti gli effetti, con tanto di focus group di tossici somelier per testare la qualità del prodotto poi da rivendere come numero uno sul mercato (che Walter White levati proprio). Una scalata sociale, de jure ma no de facto, che gli permette di assecondare le proprie aspirazioni, quelle in grado di fargli sentire d’essere riuscito nella vita: imprenditore bauscia di giorno, spietato criminale di notte.
C’è però una falla, nonostante l’attitudine, alla fine della fiera pare chiaro quanto, con tutta la buona volontà, Santo non sia né milanese, né imprenditore. Data la parentela con un padre senza onore non è mai realmente accettato nell’organizzazione dei calabresi. E soprattutto uno spietato, che alla fine dei conti, poi così spietato non è. Frequenti poi gli spazi di riflessione e il biasimo che suscita il fanatismo religioso cattolico registrato nella componente calabrese, oggi talmente anacronistico, almeno apparentemente, che sottolinearlo sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Lo vediamo nella celebrazione della festa della Madonna dei polsi, in cui il vero miracolo è trovare qualcuno che non ne abbia mai commesso uno. In suore che poi tanto suore non lo sono e in devozioni talmente esacerbate che quasi quasi ci fanno entrare in empatia con chi è disposto «ad addossarsi i peccati dell’altro» pur di mentire a sé stessi.
Da qui assume grande rilevanza il ruolo della donna e della trasformazione che subisce. Due donne in particolare, in totale contrapposizione e in legame diretto e l’una con l’altra, diavolo e acqua santa, condizioneranno profondamente la vita del protagonista. Il tutto accompagnato da una colonna sonora che risulta essere la parte più azzeccata dell’intera pellicola (su tutte Malamore di Enzo Carella), in perfetta sintonia con l’ambiente anni ottanta e il fil rouge della storia. Non è Suburra e non è Gomorra, ça va sans dire (segnatevi quest’espressione), ma non è neanche detto lo volesse realmente essere. È proprio per questo che con Lo spietato è stato malamore a prima vista.