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“After Life”: un po’ comedy, un po’ drama

Iniziamo con gli spoiler delle risposte alle vostre più probabili domande riguardanti la serie. Cerchiamo di dare un valore morale e un’utilità al clickbait, per chi è attirato dalla recensione, ma non ha voglia di perder tempo insomma. La trovate su Netflix, si tratta di una serie da sei puntate da trenta minuti circa, dal genere ibrido, un po’ comedy, un po’ drama. Era come te l’aspettavi? No. La consigli? Sì. Ci saranno spoiler? Qualche citazione qua e là, niente che precluda una buona visione.

INTRO OVVIA SULL’AUTORE, MA UTILE ALL’AFTER
Sebbene tu possa sembrare un megalomane egocentrico (you mean brilliant, don’t you?), quando decidi di scriverla, dirigerla e pure interpretarla come attore protagonista, sei anche senza alcun dubbio coraggioso, o, se preferite del sano cinismo, stupido, ma incredibilmente sicuro di te (elemento comunque alquanto utile se usato per convincere qualcuno a produrtela). Anche perché se ci riesci devi essere conscio che, in pratica, stai per mostrarti a tutti come mamma ti ha fatto, senza distinzione fra estranei e conoscenti. È quello che in sostanza fa Ricky Gervais con After Life, si mette a nudo. Completamente, come mai aveva fatto, né durante i suoi spettacoli di stand up comedy, né in altre serie di sua creazione come The Office, né tantomeno nelle vesti di presentatore dei Golden Globes, dove la parte più cinica e dissacrante lasciava decisamente meno spazio alla componente più umana. Un personaggio, quello di Ricky nella serie, personale e personificato. Ragione per la quale il suggerimento è quello di approfittarne, spiarlo. Siate guardoni, o voyeur se preferite un termine dal suono meno sporco e più secchione.

COSA RACCONTA
«Se state guardando questo vuol dire che non ci sono più». Quale sarebbe la vostra reazione se i destinatari di questo messaggio foste voi e il mittente la persona a voi più cara? È così, tra le note di Lovely Day di Bill Withers, che la serie ha inizio. In pochi istanti comprendiamo tutto il background del protagonista: quello che era prima, quello che è adesso. Parla di e attraverso Tony (alias R. Gervais), un uomo di mezza età che perso l’amore della propria vita, la moglie Lisa, colpita da cancro, non sente più nessuna ragione per vivere, se non quella di dover dare da mangiare al proprio cane, unico ostacolo al proprio proposito di suicidio, tra l’altro a più riprese manifestato ad alta voce e senza particolari difficoltà nel farlo. Tony scopre così un superpotere, essere uno stronzo, cinico, autodistruttivo, noncurante dei sentimenti altrui. Libero di dire e fare quel che vuole a prescindere di chi abbia davanti, tutto perché legittimato da un profondo e inguaribile dolore che come la morte l’ha provocato, solo la morte può togliere, anche se un aldilà
probabilmente non esiste.

Ma si sa, da grandi poteri derivano poi tante altre cose. Del resto, avete mai visto un film con un supereroe senza un supercattivo? I superpoteri non arrivano mai da soli e mai solo ai buoni. Avviene così una sorta di scissione tra quello che il protagonista si impone di dover essere e quello che realmente è, con tutto ciò che ne consegue. Perché non si potrà cambiare il mondo, ma si può arrivare a cambiare sé stessi, e con ciò la propria percezione delle cose, quindi il mondo, anche se solo per te. Lo vediamo in Tony e in tutti i vari personaggi che in uno schema visivo e narrativo (all’inizio ridondante, alla fine doveroso) in cui l’alternanza di spazi e presenza la fa da padrone, ambo i lati della medaglia finiscono per essere mostrati, passando da tutto nero, a tutto bianco, fino a fermarsi nelle sfumature di mezzo, dove anche i personaggi apparentemente più piatti finiscono per avere qualcosa da lasciarci.

In ogni puntata si susseguono i videomessaggi lasciati da Lisa a Tony, spesso congiunti poi ai flashback dei momenti felici passati insieme mentre lei era ancora in vita, le solitarie e fortemente riflessive passeggiate col cane, l’immancabile chiacchiera sulla panchina al cimitero con la vedova Ann, lo scoop del giorno via via sempre più ridicolo da recensire per il giornale locale per cui Tony lavora, la seduta dallo psicologo menefreghista, fino alla visita in casa di cura del padre malato di Alzheimer.

COSA CI LASCIA
After Life parla di tante cose, alcune dosate, esplorate e approfondite nello scorrere delle puntate, altre magari anche solo accennate con un semplice scambio di battute, ma che tuttavia riescono brillantemente ad aprire e chiudere un tema, lasciando un’idea chiara del pensiero dell’autore a quel proposito. Ora sai come la penso, non c’è bisogno d’aggiungere altro. After Life racconta di amore e felicità. Dell’idealizzazione dell’altra persona. Della nostalgia di un amore andato, che c’era, ma che fondamentalmente non può più trovare spazio, se non nei ricordi. Del rifiuto di andare oltre, fino alla paura di poterlo fare. Affronta il tema della comicità, delle battute senza filtro, ma che qualunque sia il
tema rimangono pur sempre solo delle battute. E poi c’è Kevin Hart, il comico rivale di Ricky Gervais, più volte citato e preso in giro a furia di complimenti.

Si parla con cinismo e ci si rifugia nel perbenismo. Si cade nel tunnel della droga e ci si ripara nella prostituzione, decontestualizzata e infine accettata. Ci si concentra sul concetto di malattia e si esplora la morte, che essa sia reale o apparente. Un malato di Alzheimer prova ancora dei sentimenti? Sa di stare vivendo? Il tutto accompagnato da uno sfondo drammatico, ma impregnato da una narrazione influenzata da un’inconfondibile stile comedy. Nessun pianto a dirotto, nessuna risata a crepapelle. Tanto spazio per riflettere, condito da un paio di sorprese a effetto ben progettate. Una serie ben riuscita, un progetto ordinato e ben composto, a cui ti ci affezioni poco a poco, giusto il tempo di fermarti e riflettere un attimo.