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Calcutta a Milano: school of pop

Ormai il genere musicale interpretato da Calcutta ha superato da tempo le limitazioni imposte dalla sua origine indie. Le dimensioni del fenomeno da lui generato in modo artigianale e genuino sono spropositate, tanto da permettergli di fare sold out per due date consecutive al Mediolanum Forum (insomma, non proprio il palasport dietro casa). Perfettamente conscio di questa evoluzione sia nel modo di creare arte musicale, che nell’aumentata risonanza che hanno i lavori, Calcutta realizza uno spettacolo in grande stile, colorato e caleidoscopico, come un gran concerto deve essere, senza dimenticare l’approccio che lo ha portato a sdoganare i cliché del successo.

L’esecuzione delle canzoni dell’ultimo album, Evergreen, è accompagnata da ipnotiche immagini che stregano il pubblico grazie al loro attingere a un immaginario tipicamente italiano, che viene mescolato ad un’estetica vaporwave, dando vita ad un decoupage di riferimenti al vissuto dell’artista. Certamente, da questo versante, Rai è stato il pezzo più elaborato da portare sul palcoscenico, in quanto costellato da chicche di questo genere riportate sul grandissimo schermo del palasport, tra cui una bizzarra e psichedelica coreografia di Dodò (il pupazzo per bambini più famoso degli anni novanta) intento a suonare un violino.

Ai momenti più scanzonati, come le esibizioni di Kiwi e Paracetamolo, che hanno mandato in delirio le migliaia di spettatori, si succedono parti più intime, in cui Calcutta sembra maggiormente a suo agio. Imbracciata la chitarra acustica, si mette a strimpellare i primi pezzi scritti, prima Pomezia poi Amarena (“Mi ricordo l’estate a Sabaudia/Mi chiedevi se ero sincero/Nelle mani stringevo una gonna”, canta e Milano con lui). In questo caso, abbandona l’ensemble di coriste e band al suo fianco e si cede completamente alla folla adorante, rivelando la sua vera natura di cantastorie prima che di artista musicale.

In questo binomio risiede la potenza e l’unicità del cantautore 2.0 più importante degli ultimi dieci anni. Un UFO ancora incatalogabile all’interno del panorama discografico odierno, Calcutta vive in bilico tra il kitsch delle fonti culturali che ne hanno plasmato l’identità e la semplicità di un ragazzo che vuole solamente parlare del suo piccolo mondo interiore, ma che poi finisce per essere universale ogniqualvolta avvicina il microfono alla bocca.