Il trailer mi aveva ingannato. Avesse fatto un prodotto patinato – in questo contesto dove di regole formali e standard di qualità ce ne sono – nessuno avrebbe messo bocca. Ma ovviamente Calcutta è un prodotto che deve provocare, far parlare (o sparlare?) di sé e “disturbare”, nel senso positivo del termine, sempre e comunque. Ecco perché Tutti in piedi (nei cinema solo il 10, 11 e 12 dicembre) è imbarazzante e geniale nel contempo. L’aggettivo più conforme alla pellicola di Giorgio Testi è “inadeguato” (al contesto), ma ci sono anche dei difetti.
Il film racconta in modo perfetto l’identità di Calcutta, la sua capacità di narrare in maniera anti convenzionale il suo mondo, o meglio, il nostro mondo visto dai suoi occhi. Mi ero ripromesso di non utilizzare il termine trash nel pezzo poiché in Italia è spesso associato ad un prodotto non buono, anche se il nostro sta diventando inesorabilmente il Paese trash per eccellenza. C’è della genialità nel progetto Calcutta e c’è dell’assurdo nella semplicità con cui si possa giocare a ipotizzare e delineare il brief con cui i ragazzi di Bomba Dischi hanno creato il prodotto più originale dell’ultimo decennio.
La semplice domanda è: come possiamo riuscire a non essere giudicati o paragonati al resto della scena (musicale e non)? Risposta: cercando un workflow opposto rispetto alla tendenza. Tutti vogliono testi con frasi generazionali da scrivere sui muri? Bene, Calcutta scriverà la cosa più apparentemente bassa ed insensata della musica. Risultato: “We, deficiente” è il ritornello più incontestabile della storia della musica e guarda un po’, i muri finiscono per popolarsi di queste e non delle altre frasi.
Altro tentativo? Eccolo: cosa infastidisce gli ascoltatori di musica che appartengono al target a cui Calcutta voleva e vuole andare a rivolgersi? La musica vecchia, ma non vecchia tipo Venditti, vecchia tipo Sanremo 1968 (Fausto Leali). Ecco che improvvisamente Calcutta porta in scena videoclip che citano quel periodo. Gli arrangiamenti della musica contemporanea vogliono ritmiche di hi-hat e 808 nelle frequenze basse, Calcutta risponde con organetto e synth anni settanta. Risultato: funziona (pensate al successo planetario di Childish Gambino: l’anti tendenza fatto persona, diventato l’artista più trendy del 2018).
Calcutta sa giocare a fare il Calcutta come nessun altro, forse perché è realmente così, forse perché ormai ha maturato una certa attitudine in tal senso. Con Tutti in piedi Edoardo dà l’impressione di essersi veramente superato. Tutti ci attendevamo un bel film documentario sul mastodontico evento dell’Arena, ma la percezione è che sia più un virtuosismo stilistico al limite dell’arte contemporanea. Immagini per la maggior parte della proiezione di una qualità bassa (e parlo di dpi, non di contenuto). Pop up a destra e sinistra, scene in CGI e green screen che ricordano l’ape grassa del videoclip di Valeria Rossi. Insomma l’epopea del trash (ecco, l’ho detto di nuovo) alla sua massima espressione.
Ma qual è la cosa più non-sense che si possa fare in un film sul concerto di Calcutta? La cosa per cui i più andranno al cinema? Arriva il capolavoro di Calcutta e Giorgio Testi: Oroscopo non c’è, perché Edoardo ha deciso così, sta iniziando, pubblico in visibilio, l’estasi raggiunge la sala ma no, Edoardo con una gag recitata (volutamente) da cani, comunica al cameraman che non vuole metterla. È certamente il punto più alto di quest’opera naïf che molti non capiranno.
Non si tratta di un banale “facciamolo strano” (non ce ne voglia il buon Carlo Verdone se abbiamo storpiato la battuta), il film è invece molto intelligente e coerente. Non aspettatevi il docufilm dei Coldplay, e nemmeno quello di Vasco Rossi o Ligabue. Tutti in piedi è un film per pochi che andranno a vedere in moltissimi, come d’altronde tutto il bizzarro gioco di contrarietà nato con quel video di Cosa mi manchi a fare e destinato a perdurare in eterno, come un moto perpetuo che solo Edoardo potrà fermare quando ne avrà il desiderio.