Francesco Montanari non è più il duro di Romanzo criminale, anche se a distanza di dieci anni dalla messa in onda della prima puntata per molti rimane ancora il Libanese. Difficile distaccarsi dai ruoli interpretati, quasi impossibile per prendere le distanze dal personaggio ideato da Stefano Sollima. Ma in questo mondo è vietato fossilizzarsi o ripetersi. Il successo di Romanzo criminale è stato nazionale, il motivo? Francesco sembra non avere dubbi: «Il male ha fascino, però molto spesso sono stereotipi e finisci per trattare il buono per coglione».
A marzo Montanari è tornato in televisione con la serie Il cacciatore, la serie televisiva diretta da Stefano Lodovichi e Davide Marengo che racconta la vera storia del magistrato Alfonso Sabella (interpretato da Francesco), membro del pool antimafia di Palermo dei primi anni ’90, subito dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio: «Questa serie è la prova che se tratti i personaggi positivi in maniera positiva ed autentica, si riesce a far emergere tutto il loro appeal».
Quale differenza c’è tra l’interpretare un personaggio come
il Libanese che sta dalla parte del male ed invece un magistrato che
invece sta dalla parte dei buoni?
Il fascino sia del Libanese che di Saverio Barone consiste nel fatto che
sono due ragazzi che di base vogliono essere amati dalla madre. Tutto
il resto è atteggiamento, in particolare per il Libanese. La famosa
frase: «Piamose Roma», che ripeto ora e che non dicevo più da anni, in
realtà è la rappresentazione della sua volontà di autoaffermarsi, del
far capire che lui valeva qualcosa. Su questo aspetto ho lavorato
moltissimo.
Come scegli i personaggi?
Per quanto mi riguarda scelgo sempre personaggi che mi possono dare qualcosa. Se penso alle polemiche relative a Romanzo criminale
ed allo spirito di emulazione che potrebbe solleticare, direi che se si
guarda attentamente la serie si capisce che quella è una storia di
disperazione sociale. Non è guardando una serie che si decide di
diventare criminali. Se così fosse, il problema sarebbe sociale, semmai.
Posso dire che, alla visione de Il cacciatore ho ricevuto molti messaggi che mi dicevano: “Sai che fare il magistrato antimafia è molto figo?”. E su questo direi che si spazzano via tutte le polemiche.
L’obiettivo de Il cacciatore era quindi anche quello di rendere figo un magistrato antimafia?
Non solo. Perché è vero che il male ha fascino, però molto spesso sono
stereotipi e finisci per trattare il buono per coglione. Se tratti i
personaggi positivi in maniera positiva ed autentica si riesce a far
uscire tutto il loro appeal. Di fatto Il cacciatore è una sorta di
contraltare di Gomorra, seguendo il filone crime. I personaggi devono essere veri per poter empatizzare con il pubblico.
Guardando al panorama delle serie tv italiane, cosa ne pensi delle nuove produzioni che stanno avendo successo anche all’estero?
Negli anni ’90 la Taodue ha avuto la grande intuizione di fare Distretto di polizia,
che è stato uno spartiacque vero. Da lì è iniziato un tipo di serialità
che ha avuto parecchio successo. Oggi però devi competere con le
piattaforme a pagamento a livello mondiale e la fruizione è cambiata.
Questo ci pone in un momento storico molto positivo per il settore
fiction. Per gli attori la serialità è ottima perché è ideale per
sviluppare la drammaturgia. La fucina di attori è sempre stata viva ed
ora, finalmente, i canoni di scelta per i cast dei prodotti sono tornati
ad essere obiettivi, quelli che sarebbero dovuti sempre essere.
Francesco Montanari che musica ascolta?
Ascolto tanto silenzio (ride). È mia moglie che mi fa ascoltare sia cose
nuove che vecchie, ma in realtà io leggo moltissimo nel mio tempo
libero. Di base però, lo ammetto, sono un po’ metallaro.